Comprendere la relazione tra difficoltà e prestazione

La relazione tra difficoltà e prestazione è ancora poco conosciuta, soprattutto quando si voglia prendere in esame la percezione soggettiva della difficoltà. “Impossible is nothing” è il motto di una multinazionale dello sport, da un lato è falso perché non potremo mai correre veloci come un ghepardo ma è altrettanto vero che  “i record sono fatti per essere battuti” e per farlo bisogna superare quel limite oltre il quale nessuno sino a quel momento è andato.

E’ stato così per Roger Bannister, che il 6 maggio 1954 fu il primo a compiere un’impresa considerata impossibile dai medici e cioè correre il miglio inglese (1609,23 metri) sotto i 4 minuti (3’59”4). Il suo record durò appena 46 giorni, l’australiano John Landy lo portò a 3’58″0, ciò fu possibile perché Bannister aveva scardinato una porta invalicabile oltre la quale ci sono passati tutti e riassunse la sua impresa con queste poche parole: “Il segreto è sempre quello, l’abilità di tirare fuori quello che non hai o che non sai di avere”.

Lo stesso fu per Reinhold Messner quando il 20 agosto 1980 fu il primo uomo a realizzare un’altra impresa considerata impossibile dalla scienza, scalare l’Everest (8848 metri) senza l’uso dell’ossigeno, per poi arrivare a scalare tutti i 14 ottomila con questo approccio.

Le esperienze di questi atleti sembrano sostenere il valore di avere obiettivi specifici, come mediatori tra difficoltà e prestazione. Consiste nella convinzione di una persona di raggiungere la meta prefissata. Per cui la scelta del livello di difficoltà dipenderà da quanto un atleta si trova a suo agio nello scegliere obiettivi di moderata, elevata o estrema difficoltà e ciò dipenderà da quanto si percepirà convinto nelle sue condizioni.

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