VITTIMA, NON TI PERDONO

Napoli - Dimenticato per quasi mezzo secolo, tre anni fa è saltato fuori dagli archivi dell' Istituto storico ebraico di Varsavia un drammatico memoriale scritto dall' ingegnere agronomo Calel Perechodnik, ufficiale della Polizia ebraica del ghetto di Otwock. Perechodnik, dopo essersi reso complice della morte di moglie e figlia accompagnate al vagone che le portava al campo di sterminio di Treblinka, riesce a fuggire a Varsavia nascondendosi nel retrobottega di un negozio di polacchi. E lì scrive questo memoriale, "per togliersi un peso dalla coscienza e gridare la sua verità davanti al Tribunale della Storia". Ma passano pochi mesi e lui stesso viene a sua volta ucciso, in circostanze mai chiarite. Ora questo terrificante documento viene pubblicato dall' editore Feltrinelli (traduzione di Mauro Martini, ottima postfazione di Francesco M. Cataluccio, pagg. 224, lire 25.000), riaprendo inevitabilmente una dolorosissima ferita: è possibile giudicare il comportamento di chi ha collaborato con il proprio aguzzino nel tentativo di salvarsi la vita? Come noto, nello stesso mondo ebraico sono state date risposte opposte, a riguardo. Basti ricordare, per tutte, la dura polemica tra Hannah Arendt e Gershom Scholem: mentre la prima espresse una netta posizione di condanna, il secondo riteneva impossibile giudicare in condizioni di normalità quanto avveniva in situazioni estreme come quelle dei campi. Ripropongo la questione a Gustaw Herling, il più grande scrittore polacco vivente; che ha vissuto in prima persona il grande orrore, nei gulag sovietici, e lo ha descritto in Un mondo a parte (Feltrinelli). Partirei dal titolo: Sono un assassino? Lei lo lascerebbe, o lo toglierebbe quel punto di domanda? "Io lo toglierei. Senza dubbio. Qui non c' è posto per interrogativi. Questo è un libro che non mi piace: un memoriale della contrizione, vero e allo stesso tempo ipocrita. No, non mi piace Perechodnik e non mi piace la comunità ebraica al servizio dei tedeschi che lo circonda. Sono uomini avvelenati, corrotti; per i quali la vita - in fondo vegetativa e commerciale - rappresenta tutto. Si muovono come appestati tra gli sciacalli ariani, attenti a che cosa si potrebbe ancora strappare ai contagiati. Il loro modo di pensare e agire è orribile". La sua posizione di condanna mi sembra molto netta. "Sì, dopo tanti anni credo sia arrivato il momento di affrontare il problema a viso aperto. E quindi giudicare anche il comportamento delle vittime. Certo, è stato talmente enorme l' orrore dell' Olocausto, che capisco benissimo una certa prudenza a riguardo. Ma dei criteri vanno pure introdotti. E se un signore come Perechodnik è stato un mascalzone, bisogna dirlo. Sono contrario all' impunibilità universale delle situazioni estreme". Dunque, lei è dalla parte della Arendt? "Nel suo libro ci sono eccessive semplificazioni, tipiche di una studiosa che ha analizzato il totalitarismo a tavolino, senza passarci in mezzo. Ad esempio, è semplicemente ridicolo quello che scrive sulla mancata resistenza degli ebrei, o sul comportamento degli Judenrat. Ma qualcosa di importante c' è, il sottotitolo che ci parla di "banalità del male". E' una verità che cresce con il passare dei giorni. Un tempo il male era qualcosa di demoniaco, oggi sembra diventato un' epidemia; una cosa assolutamente naturale, di cui non bisogna dar conto a nessuno. Che non scuote più alcuna coscienza. Per questo credo sia necessario giudicare. Sempre. E non lo dico perché sono stato in un gulag. Ma perché coi tempi che corrono, se ci rifiutiamo di farlo, tra breve saremo definitivamente impotenti. Pensi a cosa è stato l' orrore della Bosnia, e all' assoluta indifferenza che ha circondato quegli avvenimenti. In tal senso, malgrado tutti i suoi limiti, reputo importante lo stesso tribunale dell' Aja: perché riafferma comunque un' inviolabilità della morale. Se ci limitiamo a dire: così è la guerra, non usciremo mai da questo circolo vizioso". Lei stesso, però, in Un mondo a parte, ricordava come la prima caratteristica dei campi di concentramento fosse appunto quella di togliere all' individuo ogni possibilità di scelta. "Ma si ricorda cosa diceva Salamov ne I racconti della Kolyma? Il lager è una grande prova delle forze morali dell' uomo, anche se purtroppo il novantacinque per cento degli uomini non supera il traguardo della prova. E aggiungeva qualcosa che suona come una terribile sfida alla morale laica: la maggior parte di chi superava quella prova era religioso. E' vero. Per il laico è più difficile resistere: deve attaccarsi alla dignità, all' orgoglio personale. Ma resta comunque più facilmente corruttibile di chi crede in una qualche trascendenza". Dunque, al laico cosa resta da opporre a questo orrore? "La consapevolezza che esiste qualcosa di peggio della morte, non tanto le torture, quanto il toccare l' assoluto fondo dei resti dell' umanità. Il fondo che non permetterà mai più di tornare alla vita agognata, come accade a Perechodnik. So bene che il male è costitutivo della natura umana. Lo so perché ho visto a quali efferatezze può giungere l' uomo pur di sopravvivere. Ma so anche che in quelle stesse situazioni estreme vi sono stati casi di segno opposto: stupefacenti e confortanti. Di vera e propria santità: religiosa e laica. E mai come oggi essi devono tornare ad essere degli esempi per noi tutti. "E poi vede, io credo che alla banalità del male, si tratta di opporre la banalità del bene; quella stessa indicata dal bellissimo libro di Deaglio su Perlasca. Se lo ricorda, no? Un uomo qualunque, fascista per giunta, che salvò dalle sgrinfie di Eichmann tremila ebrei. Poi è scomparso, senza parlare neppure alla moglie di quanto gli era accaduto. E quando è saltata fuori tutta la vicenda, e lo hanno cercato per ringraziarlo e lo hanno premiato, lui ha risposto: non capisco perché tutto questo rumore. Ho fatto quello che avrebbe fatto ogni altro uomo normale". "Ecco, forse questo è l' unico punto su cui avrei qualcosa da obiettare...".

di FRANCO MARCOALDI