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Cattolica Library
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Tommaso d’Aquino. Il bene, il corpo, la ragione
Marco Rainini  |  26 marzo 2024

Il 7 marzo 1274, settecentocinquant’anni fa, moriva nell’abbazia cisterciense di Fossanova Tommaso d’Aquino. La fine giunse quando con ogni probabilità Tommaso non aveva ancora superato i cinquant’anni  (non conosciamo l’esatta data di nascita). Per questo ciò che ha scritto, per quantità ma soprattutto per influenza, impressiona ancora di più.
Membro di una famiglia potente e vicina all’imperatore Federico II, già avviato verso la vita monastica nell’abbazia di Montecassino – nella stessa regione in cui erano signori anche i suoi familiari, fra le attuali Campania e Lazio, –, con la prospettiva tutt’altro che lontana di assumerne un giorno l’abbaziato, divenne invece membro dell’Ordine dei Predicatori (“Domenicano”, come si dirà comunemente nei secoli successivi ), dopo aver incontrato i frati a Napoli, dove studiava. La famiglia non ne fu entusiasta. I frati Predicatori erano una novitas, e cioè – per la percezione dell’epoca – una stranezza, comparsa solo una trentina d’anni prima, e per giunta molto legata ai papi, che in quegli anni erano con l’Imperatore in rapporti a dir poco tesi. I fratelli, nobili, cavalieri e adusi ad altra vita, tentarono in tutti i modi di dissuaderlo, fino a rinchiuderlo in uno dei loro castelli e a introdurre forzatamente nella sua camera una ragazza, che nelle loro intenzioni avrebbe dovuto volgerlo ad altri interessi; dal canto suo, Tommaso inseguì la malcapitata brandendo una molla con un tizzone ardente – al netto degli stilemi agiografici, diversi elementi fanno pensare che le fonti riportino qui un racconto con qualche fundamentum in re, come direbbe l’Aquinate.

Insomma, Tommaso tenne duro. Una volta liberato dalla reclusione nella rocca familiare, fu portato dai frati Predicatori a Parigi, dove divenne discepolo del confratello Alberto “Magno” di Lauingen – poi proclamato santo e, come il discepolo prima di lui, anche Dottore della Chiesa. L’eredità di Alberto è chiaramente visibile in Tommaso: dal maestro l’Aquinate eredita l’interesse per i filosofi classici, e in particolare – sebbene non solo – per Aristotele. Gli scritti di colui che da questi autori sarà indicato semplicemente come «il Filosofo» erano riemersi con forza nelle scuole dell’Occidente cristiano da una settantina d’anni, e destavano preoccupazione presso le gerarchie ecclesiastiche, in particolare per quei punti che difficilmente si potevano comporre con gli articoli di fede. Nella prima metà del secolo, presso le scuole di Parigi, più volte ne era stata bandita la lectura – ossia la lezione sui suoi testi. Forse anche per questi motivi, Alberto aveva di fatto creato uno studium a Colonia, lontano da Parigi, dai sospetti dei maestri e dagli occhi delle curie, per poter più tranquillamente sviluppare i suoi studi e i suoi sistemi. Andandosene, portò con sé anche Tommaso.

Che la frequentazione di Aristotele fosse fortemente sospetta, lo testimonia la condanna che nel 1277, a motivo di questa prossimità, subirono diverse affermazioni di Tommaso, ad opera del vescovo di Parigi Stefano Tempier e del vescovo di Oxford Robert Kilwardby (suo confratello). Alberto e poi l’Aquinate ebbero dunque il coraggio e la costanza di intraprendere lo studio di testi rispetto ai quali erano per molti versi dei pionieri – pionieri di cose antiche, a fronte di pregiudizi e poteri avversi.
L’uso di questi nuovi strumenti da parte di Tommaso si sviluppa in realtà lungo linee che mostrano l’impronta dell’Ordine a cui appartiene. Fin dalle origini, con la predicazione di Domenico di Caleruega in Occitania, e poi per tutto il XIII secolo, i frati Predicatori furono attivi nel confronto con i credenti delle forme di dualismo medievale occidentale (coloro che negli elenchi di eretici dell’epoca vengono definiti «catari»). Al di là delle discussioni che divampano oggi sull’effettiva consistenza di queste correnti e delle comunità dei loro credenti, è evidente la preoccupazione che le gerarchie, e in particolari molti fra più noti autori della prima metà del XIII secolo, mostrano a riguardo. Come nelle forme di dualismo più antiche, anche quella medievale e occidentale professava la credenza per cui il mondo sensibile sarebbe frutto dell’azione di un (sub-)creatore malvagio – Lucifero, o nelle forme più radicali una seconda divinità malvagia, affiancata al dio buono del mondo spirituale. Rielaborando gli insegnamenti di Aristotele – e prendendo ispirazione, per certi versi in modo ancora più marcato, da altre dottrine classiche, di stampo neoplatonico – Tommaso presenta invece un cosmo che nella sua radice è buono. Per riprendere le parole di un grande studioso di Tommaso, il frate Predicatore Jean-Pierre Torrell, «per il solo fatto di essere creato da Dio, il mondo e tutto quanto esso contiene è una creatura buona, bella e vera. […] Secondo questo approccio alla realtà, la creatura non esiste soltanto come un essere puro e semplice; il grado di essere che le spetta è accompagnato da una partecipazione corrispondente alla verità, alla bontà e alla bellezza del suo creatore. È a questa profondità che si radica la visione del mondo decisamente positiva di fra Tommaso» (Torrell 1998, pp. 267-268).

Nella stessa direzione – in collisione con il dualismo –, anche il corpo è buono. Non se ne può anzi fare senza. Tommaso si spinge a dire che, senza il peccato originale, lo stesso piacere sessuale sarebbe stato più intenso – perché l’uomo sarebbe stato più perfetto, non “diminuito” dal peccato come invece è ora. Ancora, afferma che la risurrezione dei corpi, che la Chiesa attende con la fine dei tempi, si deve considerare molto ragionevole: perché anima e corpo sono «forma» e «materia», ossia co-principi dell’essere umano; l’anima da sola non è l’uomo, e quindi l’uomo, per essere tale, redento e perfezionato, ha bisogno di un corpo. Ciò porterà a una svolta, per cui la posizione di stampo agostiniano, ancor mainstream fino a Tommaso e oltre, per cui «l’uomo è un’anima che ha un corpo» (come per il celebre Ugo di San Vittore, un secolo prima), cederà il passo a quella di Tommaso, per cui l’uomo è un’anima e un corpo (sua «forma» e «materia», appunto), che poco meno di quarant’anni dopo la sua morte il concilio di Vienne (1311-12) definirà come ciò che la Chiesa deve credere.

Molto si potrebbe dire ancora di Tommaso. Vorrei qui richiamare brevemente solo un ultimo aspetto, molto importante, del suo pensiero, che ancora una volta riceve dal suo maestro Alberto, e sviluppa. Per l’Aquinate vi sono cose conoscibili da tutti, con l’uso della ragione, e vi sono cose che si conoscono solo attraverso la fede – in ultima analisi, accessibili solo a chi abbia la luce delle fede. Ciò delinea, nell’unica realtà, due ambiti di conoscenza («senza confusione... e senza separazione», potremmo aggiungere, con il concilio di Calcedonia del 451). Quello della fede non è accessibile a tutti: solo chi è illuminato dallo Spirito può davvero comprenderlo e vederne la bellezza e la ragionevolezza; per gli altri, è una follia. Quello però della ragione è l’ambito in cui con tutti ci si può confrontare, trovare convergenze, e discutere sulle divergenze. Al di qua delle diverse confessioni e professioni.
Tutto sommato, mi sembra piuttosto attuale.


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* da Wikimedia Commons.

 
 
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