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Andrea Pezzi: «Diventeremo cyborg, ma se prima non capiamo cos’è un uomo saremo solo più infelici»

Era una star di Mtv, oggi ha una holding del digitale da 150 milioni. Costruita come antitesi a Google, Facebook & Co. che «s’appropriano dei nostri dati, delle nostre foto». E qui parla di fake news, di Briatore «che è brutto», di quando era benzinaio, di quando per benefit gli offrivano escort, del perché ama pagare le tasse in Italia e non fa impresa per soldi. E ha un messaggio per gli umanoidi nel 2045

di Candida Morvillo
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C’è chi si ricorda di Andrea Pezzi - oggi 43 anni - perché fu il primo veejay di Mtv che faceva impazzire le ragazzine, chi perché scappò con l’attrice Claudia Pandolfi fresca di nozze. C’è chi lo conosce perché è fidanzato con l’attrice Cristiana Capotondi. Undici anni fa, Pezzi lasciava la televisione e diventava imprenditore nel digitale. Parecchi gli diedero del pazzo, lo guardarono con scetticismo. Un mese fa, a Londra, una delle sue quattro aziende ha ricevuto il Digiday Video Awards Europe, finora vinto da grandi del web. Il Sole 24 ore ha definito il suo gruppo, valore stimato 150 milioni di euro, “la holding italiana di start up britanniche”. L’articolo si chiedeva «se è possibile aprire start up internazionali a catena finanziando le successive con gli utili delle precedenti» e rispondeva che lui, Pezzi, ci è riuscito. Con buone idee, molto lavoro, dividendi mai distribuiti e utili sempre reinvestiti. Tasse pagate in Italia. Milano, venerdì. Appuntamento alle nove del mattino a casa sua. Un appartamento bello, ma cento metri e poco più, lui in jeans e maglietta, la Capotondi che si prepara a uscire in motorino. Il computer già acceso sulle slide di un intervento che Pezzi farà nel pomeriggio in Triennale, a un Forum di «visioni che ispirano il futuro». In Triennale, a marzo, lui aveva lanciato The Outplay, la piattaforma di «precision video advertising» appena premiata a Londra. (Sopra il titolo, un ritratto di Andrea Pezzi dal suo album privato. Sotto, è con la fidanzata Cristiana Capotondi in una foto dal suo Instagram).

Perché sul suo sito la racconta come una «risposta di servizio, ma con una visione intellettuale»?

«Oggi, chi investe in pubblicità sull’online raggiunge facilmente tantissime persone su Facebook, Youtube, Google e altre Over The Top. Ma le Ott lucrano su contenuti prodotti da altri, come i siti di informazione. Che restano senza risorse ed è una perdita che produce mostruosità, perché il giornalismo è la camera di compensazione fra realtà e opinione pubblica. Questo è il tema intellettuale, poi c’è il tema di servizio. Per gli inserzionisti, i social sono anche luoghi del dissenso dove si può essere attaccati, insultati, demoliti».

Quindi, il tema è portare gli advertiser a investire di più sui giornali online?

«La loro difficoltà è districarsi in una giungla con centinaia di realtà da verificare nelle opportunità e nella rilevazione dei risultati. Io ho creato una piattaforma globale dove gli editori condividono la loro library video e l’advertiser può pianificare avendo un unico report, indipendentemente dai siti in cui va».

Che cosa non hanno capito gli editori sull’online?

«Che il digitale separa il supporto fisico dal contenuto. I publisher, sulla carta, vendevano spazi in centimetri, e sull’online si sono messi a vendere banner, ma sono stati battuti da Google che invece vendeva connessioni alle parole. Google, se vendi computer, ti vende la connessione alla parola computer, che pesca - poniamo - sul Corriere. E ci fa i soldi. Io, entrando nel digitale, ho capito che dovevo produrre contenuti liquidi. Con la mia prima azienda, Ovo, inventai una wikipedia video, certificata da Treccani e Enciclopedia Britannica, a cui attaccare pubblicità e che viaggiava, e viaggia ancora, dal Guardian, a El Paìs, al Sole. Generiamo ogni giorno 400 milioni di impression pre-roll».

Anche lei crede che il futuro sarà sempre più dei video?

«Sono un fan dei video, che però hanno un limite. Se leggo un articolo, mi devo sforzare e in quella fatica io cresco. Un video non richiede lo stesso sforzo, ha valore come innesco di un ragionamento che poi devi approfondire. Ai ragazzi, bisogna anche insegnare che la lettura è una ginnastica mentale necessaria».

Il nuovo business del digitale sono i dati.

«Mi sono chiesto chi è il padrone del dato? L’advertiser. Ma l’advertiser il suo dato non l’ha mai chiesto a nessuno. Quindi, cosa fa Google? Analizza il dato, lo mette in un sistema ordinato e glielo rivende alla prossima campagna. Con Myintelligence, io aiuto le aziende a capire che possono gestire i dati in autonomia, per erogare meglio i loro servizi e per guadagnare». (Sotto, Andrea Pezzi, dal suo album privato, nel 1998).

E come fa?

«Finora, si sono sempre usati i cookies, il codice “lasciato” nel nostro computer, che ci riconosce e ci fa raggiungere da pubblicità mirata. Ma i cookies durano pochissimo. Cancelli la cronologia e spariscono. L’advertiser deve comprarne sempre di nuovi da chi ne ha di più, le Ott. Con Carlo De Matteo, che è ceo e cofondatore di Myintelligence, abbiamo sviluppato una tecnologia che identifica invece il device».

A Sette, nel 2015, ha detto: «Gli italiani del web sono 27 milioni, io ne conosco 23. So se sono maschi o femmine, dove abitano, quanti anni hanno. Di otto so anche la propensione al consumo». Oggi, che cosa sa di noi?

«Le informazioni che ho non sono mie, ma dei miei clienti. Che, se pianificano su Facebook, generano un dato che conosce Facebook, se pianificano con me generano un dato che gli appartiene. Facebook produce contenuti? No. Facebook siamo noi, però i dati se li tiene lui. Tu metti la tua foto e Mark Zuckerberg grazie alla tua foto fa i soldi, tu no. Nessuno, sui social, si rende conto di quanto vale quello che sta cedendo. È per questo che ho fatto Shallet».

E che cos’è?

«Una App che serve a spiegare alle persone questo, ma sulle foto. Cioè a far monetizzare le foto a chi le mette, non a Instagram o Facebook. Io, quando mi accorgo di una cosa, invece di scrivere un libro faccio un’azienda».

Lei sembra Davide contro Golia.

«Non lo faccio per vincere contro le Ott, che sono imbattibili. Ma perché, per me, la vita è rappresentare un pensiero attraverso un’azione».

Non trova mostruoso che si conosca tutto di noi, dove andiamo, come spendiamo?

«La privacy dei dati è un falso problema. Dipende dall’uso che ne fai. Se un’azienda deve erogare la pubblicità di un rossetto, a lei forse interessa, a me no. Se la geolocalizzazione serve a individuare un criminale, ben venga».

E quando gli hacker rubano i dati e chiedono il riscatto, com’è successo su scala globale pochi giorni fa?

«C’è la giustizia. Guardi questo bicchiere: potrei scagliarlo contro qualcuno. Cosa facciamo? Smettiamo di produrre bicchieri? Direi che abbiamo problemi più seri».

Quali sono i problemi seri?

«Oggi, vado in Triennale a parlare di Robotica umanoide e Transumanesimo».

Ray Kurzweil, il futurologo di Google, sostiene che nel 2045 gli uomini saranno una combinazione d’intelligenza biologica e artificiale. Lei è più curioso o preoccupato?

«Prima di allora, dovremo capire cosa è l’uomo e cosa lo rende diverso dal robot. Il robot è un programma già scritto. L’uomo è un progetto, è azione protesa in avanti con una sua intenzionalità. Il suo criterio di evoluzione è fondato su un codice vivo, fatto di immagini. Il progetto di una casa è il disegno di un architetto, ma prima è un’immagine nella testa dell’architetto. Ognuno deve individuare il suo criterio di evoluzione e continuare a immaginare se stesso secondo questo criterio, per non farsi abbagliare da superpoteri che non rispondono al suo progetto di vita».

E se non lo facciamo?

«Già ora siamo condizionati da complessi e stereotipi, i chip che avremo addosso ci condizioneranno due volte. Leggeremo la realtà in maniera ancora più deformata. Saremo ancora più infelici». (Sotto,nella foto Ansa, Pezzi all’Mtv day del 2000).

A furia di parlarci via social, stiamo disimparando le relazione personali?

«L’empatia sta diminuendo, però tanta superficialità di rapporti faccia a faccia è stata sostituita da WhatsApp. E questo ha contribuito a rafforzare l’esigenza di relazioni vere. Vedo nascere micro comunità di persone che si parlano e si capiscono più profondamente di quanto si voglia credere».

È il web che genera gli odiatori o sono gli odiatori che trovano voce nel web?

«Se non ci fossero i social, avremmo le rivoluzioni in piazza. Oggi, la pace sociale è possibile perché la gente ha almeno questa valvola di sfogo».

La sua prima intuizione da imprenditore?

«Sono partito da una cosa invisibile. Un’idea, che poi diventa un pezzo di carta con una matita. E un passo dopo l’altro, ho camminato nello strano, meraviglioso, confine tra realtà e fantasia. L’immaginazione è il luogo più bello dell’impresa. Io faccio l’imprenditore giocando, coinvolgendo persone, svelando a tutti il motivo per cui lo faccio».

E qual è il motivo?

«Divertirsi. Nelle cose che fai, non solo andando in vacanza, ma soprattutto nell’azione, nell’atto stesso di fare le cose». (Sotto, nella foto LaPresse, Pezzi trentenne).

Che cosa la diverte così tanto nel lavorare?

«Risolvere problemi. Noi evolviamo confrontandoci con la complessità. Non a caso l’Italia è un posto con tanti problemi e tante intelligenze. Invece, vai in Paesi straordinariamente efficienti e la gente è depressa».

Perché Gagoo è una società di diritto italiano, anche se ha una sede a Londra e opera all’estero per il 75 per cento?

«Perché non voglio smettere di essere italiano. Ho vissuto 5 anni a Londra ai tempi di Mtv, qui si sta bene. È il Paese migliore che c’è».

Non il migliore per fare impresa, fra burocrazia e incertezza del diritto.

«Balle. Se fai l’imprenditore solo per fare profitto, forse è vero. Ma se l’impresa è un mezzo per costruire la propria crescita esistenziale, allora l’Italia è impagabile».

In un video che ha prodotto per il Forum Ambrosetti, filma bambini che parlano del mestiere di imprenditore e dicono che servendo gli altri si diventa migliori.

«Fare impresa significa mettersi al servizio degli altri, ma la motivazione è l’egoismo. Quando aiuti qualcuno, lo fai per te, per fare meglio te stesso, e questo magicamente produce risultati. E, alla fine, ti fa scoprire che gli altri sei sempre tu».

Le chiedo un passo indietro al suo ultimo giorno in Tv.

«Ero al Tornasole, Raidue. Sapevo che era la mia ultima volta. Avevo sempre fatto tv per curiosità, per il piacere di conoscere persone che senza una telecamera forse non mi avrebbero mai ricevuto. Ma mi ero accorto che questo lavoro, per crescere, doveva diventare un mestiere, adeguarsi alle regole del mercato. Quindi non potevo più essere l’agente, il produttore, l’autore di me stesso».

Ho letto che per riuscire ad allontanarsi senza essere troppo inseguito, cercava scientemente di risultare insopportabile agli addetti ai lavori.

«Un giorno, un agente molto potente mi chiese: “Pezzi, quando ti posso mettere sulla sua mia carta intestata?”. E io: è più facile che tu finisca sulla mia».

Chi era? Lucio Presta? Beppe Caschetto?

«Era Caschetto, ma poteva essere un altro. Nello spettacolo, funziona così… L ’artista è un cerebroleso che va guidato e fa carriera perché consente ad altri di avere il cervello al posto suo. Poi se diventa importante, tira la volata al resto degli artisti della scuderia. Sta in un sistema e io sono stato viziato da Mtv, che era un luogo senza sistema, perché nasceva insieme a noi».

Ho letto che le avevano offerto Sanremo e non andò all’appuntamento.

« È una leggenda. Non andai a un appuntamento, ma non posso sostenere che volessero offrirmi il festival». (Sotto, nella foto Omega, Pezzi a Quelli che il calcio, nel 2000).

Ai suoi esordi, Aldo Grasso scrisse sul Corriere: «Andrea Pezzi rappresenta un curioso caso di “pensiero televisivo” e insieme di “pensiero forte”. Si vede che ha fatto buone letture, che non è il vuoto il suo unico referente». Quanto si esaltava leggendo cose simili?

«Per onestà, poi Grasso ha cambiato idea, disse di essersi pentito. Comunque, più che esaltarmi, avevo semmai il problema opposto. Un giorno, a un dibattito alla casetta del cinema di Roma, con Giovanni Sartori e Marcello Veneziani, Grasso disse una cosa molto carina nei miei confronti. Risposi: “Quando sento parlare di me in modo così entusiasta, io che sono io, in realtà vi dico che sono un ragazzino smarrito. E che ho un problema serio: se quelli che devono essere i miei maestri mi guardano come un oracolo, io che sono tutto da fare, non so chi devo diventare”. Dissi che gli adulti cresciuti nel ’68 non sapevano guidare la mia generazione, erano poveracci».

Usò la parola «poveracci»?

«Sì, tra l’altro, Sartori mi diede ragione. Ma era una critica da ventenne insicuro che cercava un riferimento».

Lei è stato un ventenne insicuro?

«Vedevo in tutti una grandezza pazzesca, per questo intervistavo tutti. Ho smesso di fare Tv quando ho capito che, per essere grande, dovevo essere io a fare».

Dopo la Tv, si è anche laureato in Psicologia a San Pietroburgo.

«Un’esperienza bellissima. Ho sempre cercato un senso alle cose, alla morte, alla vita, lì ho trovato un percorso che mi corrispondeva. Prima, avevo lasciato l’università, a Bologna, perché se lavori per mantenerti, se sei tu che stai pagando e non i tuoi che ti spediscono i soldi, non ti sta bene che il professore mandi l’assistente».

Che lavoro faceva per mantenersi?

«Il benzinaio. Poi il karaoke in un pub».

È cresciuto ad Alfonsine, in Romagna. Famiglia semplice, ne deduco.

«Padre tubista, madre casalinga. Ho fatto ragioneria. Per cinque anni, andavo a scuola a Lugo di Romagna, in bici alle 5 e 45 per mezz’ora, poi prendevo la corriera, arrivavo a Lugo, facevo venti minuti a piedi».

Sognava di diventare ricco?

«Per niente. Se vivi nelle ristrettezze, ti adatti. Da bambino, sentendo parlare di rapimenti, mi ero convinto che potessi essere rapito. Mi sentivo il bambino più ricco del mondo, forse perché avevo un pallone. Mio padre ne ha riso fino al suo ultimo giorno. Oggi, potrei permettermi una vita migliore di quella che faccio, ma il lusso non è lo showdown che fai per gli altri, è uno spaghetto con le vongole buone in un posto che ami in riva al mare».

Quanto guadagnava ai tempi d’oro della tv?

«Tre milioni di euro l’anno».

Quanto si montò la testa?

«Zero. A Mtv, a Londra, noi artisti avevamo una tata che provvedeva a ogni nostro capriccio. Chiedevi una canna e andava a Camden a procurartela, volevi un’escort e te la portava. Lì ho scoperto un mondo di ragazzi viziati, cresciuti nel Paese dei balocchi. Andai da un capo di Mtv e chiesi se potevo convertire questi – diciamo – benefit, in un corso da producer alla Bbc. Non capiva. E io, timidamente: solo se non creo problemi… cioè, se volete vado anch’io alle feste, ma questo corso sarebbe utile per i miei programmi…».

Che cos’è il successo?

«La dimensione in cui consapevolmente vivi il gioco della vita, che è fare per diventare».

Vent’anni fa, che avrebbe risposto?

«L’approvazione degli altri, il fatto che qualcuno mi potesse invidiare». (Sotto, Pezzi con Cristiana Capotondi in una foto dall’account Instagram @cristianacapotondi).

A proposito d’invidia. Perché c’è tanta invidia sociale in Italia?

«Penso che agli italiani bisogna dare la dignità di pagare le tasse».

Che cos’è «la dignità di pagare le tasse»?

«Significa: onora chi contribuisce. Chi compra una Ferrari dà lavoro a 50 persone, chi compra la 500 a due. Se i miliardari si comprano la 500 per evitare rotture di scatole ai semafori, 48 persone non lavorano. Se onori chi spende, crei già un atteggiamento favorevole a far ripartire l’economia».

Lei che macchina ha?

«Una Panda».

Qualcosa non torna.

«Vivo in una società e ne prendo le misure. Oggi, lo storytelling prevede che, se hai un’auto importante, sei Fabrizio Corona. È un’estetica che devo rispettare, non posso affermare da solo un mondo».

In un altro mondo, che auto guiderebbe?

«La Panda, perché se il limite di velocità è 130 all’ora, non ha senso avere una Porsche».

Sa che è d’accordo con Flavio Briatore che invita a non prendersela coi ricchi?

«Da liberale, riconosco che Briatore dice cose di buon senso. Da uomo di comunicazione, dico che Briatore è brutto. E se il modo è esteticamente brutto, la sostanza non passa».

Donald Trump non è esteticamente il top, ma ha vinto.

«Trump è l’effetto di Obama che è venuto prima, come Beppe Grillo è l’effetto dei partiti che abbiamo avuto. Trump e Grillo non sono la causa del loro successo. L’estetica di Emmanuel Macron è il suo successo, al di là della sostanza».

Il 10 per cento della sua Gagoo è del finanziere renziano Davide Serra. Lei ha un grado di separazione da Matteo Renzi.

«Serra è considerato renziano, ma io lo conosco solo come una persona di cuore, un entusiasta».

Lei conosce Renzi?

«No e non mi interessa. Io ho due regole: sono a favore di chi porta la palla e non faccio mai il tifo contro chi ha un’opportunità. Perciò, ho creduto in Renzi, anche se non l’ho votato».

Renzi bocciò una riforma che a lei piaceva. La Web tax di Francesco Boccia. Disse che ci avrebbe fatto apparire un Paese contrario all’innovazione.

«Per fortuna, è tornata sul tavolo. Stabilisce che chi fa pubblicità online in Italia deve avere una partita Iva e pagare le tasse qui. Renzi la stoppò con uno slogan, disse: “Il cloud è diventato la nuvola di Fantozzi”. Ma la politica non si può ridurre a slogan».

La Bit tax proposta da Massimo Mucchetti le piace?

«I costi finirebbero scaricati sugli utenti e la logica di base non è trovare una nuova tassa, ma far pagare le tasse a chi produce profitti».

Oggi, che si parli di Trump, Brexit o vaccini, si dà la colpa di tutto alle fake news. Si possono sconfiggere?

«Il dibattito è inutile. Tutto a questo mondo esiste per una fake news. Anche la Chiesa Cattolica. Cos’è fake, cos’è real? Alla fine vince una delle due e quella diventa storia. Serve solo sapersi chiedere: cui prodest? Chi ha interesse a mettere in giro questa news e quest’altra? Poi, scegli».

Cristiana Capotondi. State insieme da dieci anni. E dice di lei sempre cose meravigliose.

«Perché lei è meravigliosa. Ognuno, quando parla dell’altro, parla di se stesso. Cristiana ha la capacità di amare e di vedere in me qualcosa di bello e questo fa di lei una persona bella. Poi, ha ragione? È una fake news? Quando parla di me, io penso quanto è grande, non quanto mi ama».

Cito Cristiana: «Con Andrea ho imparato a essere donna, alcuni uomini profondamente risolti sono la strada di cui ogni donna avrebbe bisogno per conoscersi davvero». Lei si sente «profondamente risolto»?

«Mi sento un uomo che ha incontrato se stesso. Lo dico con umiltà e con grande serietà. Ho fatto un percorso interiore e ho raggiunto molto di più di quello che speravo da bambino, come pace e capacità di oggettivare la realtà. Ho trovato il punto di accesso a quel luogo che ti dà tutte le risposte, e che è dentro di te, e che in fondo sei tu, ma rispetto al quale tu, inteso come esistenza storica, non vali nulla».

Quante aziende avrà fra 10 anni?

«Nessuna. Quando Gagoo avrà prodotto la capacità di comprensione che doveva produrre per me, sarà un’esperienza finita. La vita è un viaggio. L’uomo raggiunge un cielo. Capisce una cosa, quando l’ha capita deve trascenderla e andare oltre».

Oltre fino a dove?

«A me piacerebbe diventare una persona capace di trasmettere ai giovani l’astrazione e il senso delle cose che io stesso sono diventato». (Sotto, Pezzi in una foto dall’archivio Rcs di cinque anni fa).

21 maggio 2017