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Cattolica Library
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Dante poeta latino: le Egloghe
Marco Petoletti  |  12 maggio 2021

Forse non tutti sanno che Dante, negli ultimi anni della sua vita, mentre era ospite a Ravenna di Guido Novello da Polenta, compose delle poesie latine. Boccaccio, che copiò questi testi in un suo zibaldone autografo, oggi a Firenze nella Biblioteca Laurenziana, le giudicò «assai belle» nel suo Trattatello in laude di Dante.

Alla fine del 1319 o all’inizio dell’anno successivo Dante, mentre attende a stendere gli ultimi canti del Paradiso, riceve un’epistola in versi latini scritta da Giovanni del Virgilio, un maestro bolognese. Nella sua lettera poetica l’esuberante Giovanni osa sfidare il suo interlocutore su un tema scottante: il problema del poetare in volgare. Pur riconoscendone la grandezza, gli domanda perché mai abbia voluto comporre la sua opera maggiore in volgare, lasciando digiuni i veri letterati, che conoscono e praticano il latino. Per questo propone a Dante di scrivere un poema epico, che si ricolleghi ai modelli antichi di Virgilio e di Lucano. È questa la condizione indispensabile per ottenere quella corona poetica che avrebbe consacrato Dante pubblicamente. Giovanni del Virgilio si offre come araldo pronto a presentare all’accademia bolognese il novello poeta cinto d’alloro.

Colpito nel vivo non soltanto dall’ambizione, ma soprattutto dal tema della poesia in lingua volgare, Dante risponde in esametri, consegnando alla storia della letteratura la sua unica prova di versificatore in latino. In maniera sorprendente dà alla sua replica la forma di bucolica virgiliana, rinnovando un genere che dai tempi del suo «maestro e donno» era in pratica silente.

Egli sceglie di imitare le antiche Bucoliche, che nella medievale rota Vergilii occupavano la posizione più dimessa: la loro qualità era il carattere umile. Dante raccoglie il guanto di sfida, ma rifiuta l’epica. Così impartisce al suo censore un doppio insegnamento: mostra la propria maestria nella tecnica prosodica e metrica e, nello stesso tempo, prova che l’incoronazione gli spetta per la sua Commedia in volgare. Altre vie conducono ai gioghi di Parnaso.

Con fresca ispirazione e raffinata abilità poetica Dante pastore evoca il dialogo tra sé, Titiro, e un altro abitatore d’Arcadia, Melibeo, da identificare con Dino Perini, notaio di origine fiorentina trasferitosi a Ravenna, il quale insiste per conoscere il canto di Mopso (così è chiamato Giovanni del Virgilio). Dopo qualche esitazione il desiderio è esaudito. Il primo tema affrontato è quello dell’incoronazione poetica. All’offerta di ricevere il serto a Bologna si affianca il vagheggiamento di una cerimonia sulle rive dell’Arno a Firenze, abbandonata per l’ingiusta condanna all’esilio. La prova delle virtù poetiche sarà il «poema sacro»: sarebbe stata la Commedia a meritargli l’agognato alloro. La dichiarazione non ammette replica: Mopso dovrà darsi pace. L’egloga si chiude all’insegna di un tentativo di far ritornare Giovanni del Virgilio sui suoi passi con l’invio di dieci piccoli secchi di latte, munto da un’ovis gratissima: dietro il dono pastorale è da scorgere forse un gruppo di canti del Paradiso, la cui lettura avrebbe potuto far vacillare le certezze del maestro bolognese. L’ovis è la sublime ispirazione poetica che ha consentito a Dante di vedere l’eterno e gli ha dettato le parole per descriverlo.

A questo punto Giovanni del Virgilio, riconoscendo all’Alighieri il merito di avere rinnovato il genere bucolico, riprende il calamo per scrivere anche lui un’egloga virgiliana, e propone a Dante/Titiro, che abita a Ravenna, di raggiungerlo a Bologna per farsi maestro di cose nuove e antiche tra amici giovani e vecchi.

A qualche tempo di distanza Dante risponde. Con la sua ultima egloga egli rifiuta l’invito del suo interlocutore, nascondendo le proprie paure, che gli impediscono di andare da Mopso, dietro lo schermo dell’orrendo Polifemo che vive nelle grotte dell’Etna. L’ambientazione cambia: si è ora non più in Arcadia, ma nella Sicilia teocritea, dove Titiro e Alfesibeo, da identificare con Feduccio de’ Milotti, medico di origine certaldese, parlano amabilmente tra loro. Se Titiro e Alfesibeo pascolano i loro greggi sui verdi prati del Peloro, Mopso frequenta le caverne infuocate dell’Etna, la dimora di Polifemo.

Tanto è l’affetto provato da Titiro per Mopso in virtù della comune sequela delle Muse, che egli si trasferirebbe in quell’antro etneo, se lì non abitasse appunto Polifemo. Chi si celi dietro questa maschera sanguinolenta non si sa con certezza. Potrebbe trattarsi di Fulcieri di Calboli, lo spietato persecutore di Firenze nel 1303, le cui nefande gesta sono presentate dalle profetiche parole di Guido del Duca in Purg. XIV 58-66. Tuttavia potrebbe essere un’ingegnosa replica alle parole del maestro bolognese che aveva invitato Titiro nella sua grotta con le stesse parole impiegate dal Polifemo virgiliano per spronare l’amata Galatea ad abbandonare le acque del mare per andare da lui (Verg. Ecl. IX 39-43). Le imitazioni dei classici latini, sperimentate da Giovanni nel costruire i suoi versi, non sfuggono a Dante. In conclusione, Titiro non se ne andrà nelle grotte dell’Etna, non priverà del suo nome i pascoli che lo amano.

Accanto allo splendore della Commedia anche la piccola luce delle bucoliche di Dante merita di essere conosciuta: le Egloghe ci rivelano le qualità di un poeta grande anche in latino e oltretutto illuminano una fase della biografia di Dante tutto sommato poco conosciuta.

 
 
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