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Cattolica Library
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Il Cinque Maggio, il Natale di Napoleone
Pierantonio Frare  |  12 maggio 2021

L’interpretazione del Cinque Maggio ruota intorno ad una domanda fondamentale: Manzoni dà un giudizio positivo o negativo di Napoleone? E, strettamente collegato: è chiaro che Manzoni considera Napoleone un salvato: ma come la mettiamo con l’enorme quantità di stragi e di violenze di cui Napoleone si è macchiato? Ci si può salvare senza pentirsi? E nel Cinque Maggio c’è traccia di un pentimento?
Per rispondere a queste domande accostiamo Napoleone all’innominato. Manzoni compose il Cinque Maggio nel luglio1821; e l’innominato, nei suoi tratti essenziali (anche se poi modificati in misura anche rilevante) compare già nel Fermo e Lucia, in capitoli scritti probabilmente nel 1822.

Tra i due personaggi sono state segnalate numerose somiglianze: la loro natura di uomini eccezionali, il loro ruolo di condottieri, l’assenza del nome, la vivacità dello sguardo. Altre investono diversi aspetti della biografia (letteraria, s’intende) dei due personaggi: entrambi aspirano alla superiorità e invidiano quelli che la esercitano («l’ansia di un cor che indocile / serve pensando al regno»), entrambi hanno rapidità di pensiero e azione e di passaggio dal primo alla seconda, entrambi conoscono l’esilio. La parentela si coagula in una precisa ripresa lessicale: «essere arbitro, padrone negli affari altrui» (PS XIX) corrisponde ad «arbitro s’assise».

Le affinità psicologiche si traducono in identità di atteggiamenti fisici: Napoleone a Sant’Elena è raffigurato immobile («stette»), «chinati i rai fulminei, / le braccia al sen conserte»; e l’innominato, «rimaso solo» dopo che il Nibbio gli ha relazionato sul rapimento di Lucia, è ritratto «in piede, colle braccia incrocicchiate sul petto, e col guardo immoto sur una parte del pavimento» (PS XXI 420).

Anche i processi psicologici sono simili: come Napoleone, «chiuso in sì breve sponda», anche l’innominato, «chiuso dentro» (PS XXI) l’angusto spazio della sua camera, subisce l’assalto dei ricordi, autonomi dalla sua volontà: «E qui, senza ch’egli si affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé gli rappresentò più d’un caso in cui né preghi né lamenti l’avevano punto smosso dal compiere le sue risoluzioni» (ibid.). Come Napoleone, del quale Manzoni scrive che «l’assalse il sovvenir». E poiché i ricordi di questi fatti non lo rianimano, anzi portano con loro «una specie di terrore», l’innominato tenta un rimedio ben verosimile: allo stesso modo di Napoleone (il quale «ripensò») anch’egli «andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcuna di quelle cose che solevano occuparlo fortemente, onde applicarlo tutto ad essa» (PS XXI). Un pensare che è un distrarsi, in buona sostanza. La ricerca è vana: non perché l’innominato non trovi cose «importanti», ma perché nessuna di esse è tale da occupare tutto il suo pensiero, da distrarlo da quelle memorie involontarie e non cercate. L’assalto dei ricordi si fa dunque insistente e lo riporta indietro, «d’anno in anno, d’impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza» (PS XXI), fino allo sbocco nel vicolo cieco della disperazione e dell’idea del suicidio.

La disperazione chiude anche la serie dei ricordi evocati da Napoleone: «e disperò». Il percorso dell’innominato aiuta a cogliere la reale natura di quella operazione della volontà: mettersi volutamente a ricordare («ripensò») «le mobili / tende e i percossi valli» ecc. significa cercare nel passato un argine all’assalto di un «sovvenir» che getta una luce diversa sui fatti di quel passato: dall’angolo visuale del presente, anche a Napoleone, come all’innominato, tutto «appariva mutato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desiderii, ora non aveva più nulla di desiderabile» (PS XXI). Il «sovvenir» subìto e incontrollato è doloroso: Napoleone allora cerca di arginarlo ripensando volutamente a fatti gloriosi, rievocati con lo stesso lessico di splendore e movimento e ampiezza di quand’era imperatore, cioè della prima parte dell’ode. Ma tutto è invano: l’eufemizzazione, l’abbellimento della guerra, gli aspetti gloriosi della sua straordinaria avventura che ora egli volutamente rievoca, chiama in soccorso, non riescono più a cancellare il rovescio doloroso di quegli anni di guerra e di stragi, rivelatogli ora dall’esilio di Sant’Elena.



Napoleone a Sant'Elena, in un'incisione che illustra la riedizione dell'ode in Opere varie di Alessandro Manzoni, Milano, Fratelli Rechiedei, 1881

Napoleone a Sant'Elena, in un'incisione che illustra l'edizione dell'ode
in Opere varie di Alessandro Manzoni, Milano, dalla tipografia di Giuseppe Redaelli, 1845, p. 855.


Non credo che, come sostengono alcuni, nel Cinque Maggio manchi qualsiasi giudizio sulla guerra e che la conversione di Napoleone sia posticcia: il giudizio invece è ben presente ed è affidato alla scelta delle parole. La «cruenta polvere» della II strofa («la sua cruenta polvere / a calpestar verrà») va collegata a «calpestar» e a «percossa», che appartengono alla stessa sfera semantica del sangue, della forza, della violenza: per cui la terra tutta diventa un doloroso campo di battaglia, il luogo della sanguinosa sopraffazione del forte sul debole. Dunque, non manca il giudizio dell’io poetico sul male compiuto da Napoleone.
Il giudizio di Napoleone sulla sua vita passata è concentrato in una sola, angosciata parola: «strazio». È termine di Napoleone, raccolto dal narratore («Ahi! Forse a tanto strazio / cadde lo spirto anelo»), che si colloca nella stessa sfera semantica di «cruenta»; e nasce in lui non dal confronto tra il suo passato glorioso e il suo misero presente: sarebbe cosa troppo normale per un personaggio eccezionale come Napoleone. Nasce, invece, dall’amara constatazione che il suo tentativo di concentrare il ricordo sugli eventi più fausti e gratificanti non può arginare un «sovvenir» che ha assunto una propria autonomia e che obbliga Napoleone a leggere in chiave di dolore altrui, non di gloria propria, gli eventi passati.

Nel Cinque Maggio sembra che manchi la tentazione del suicidio, presente nella vicenda dell’innominato. In realtà c’è, come ci segnala la frase «e disperò»: infatti, disperazione e suicidio sono indissolubilmente legati, già a partire dall’archetipo del personaggio evangelico di Giuda. L’assenza è solo apparente, dovuta alla concentrazione allusiva tipica del sublime, e cercata da Manzoni.
Napoleone pare dunque aver accolto l’idea del suicidio, ma l’ha respinta, come l’innominato. Anch’egli sottoposto a «sventure», anche lui è fortemente tentato dall’idea del suicidio e lo rifiuta; il rifiuto costituisce il primo passo verso la conversione, proprio in quanto significa il transito dalla sfera semantico-morale della disperazione a quella della speranza. Lo stesso passaggio è fortemente sottolineato nel Cinque Maggio: all’«e disperò» del v. 87 si oppongono, a brevissima distanza, i «floridi / sentier della speranza».
L’ode delinea quindi, per cenni e per scorciate sintesi, una vicenda di pentimento e di conversione. A delineare un Napoleone pentito ci aiuta anche la presenza nell’ode di un gran numero di riprese da Purgatorio XI: il canto dei superbi, come appunto Napoleone è stato, ma dei superbi che stanno espiando.

L’ode prende titolo da una data, cioè quella della morte di Napoleone. La morte, tuttavia, in ottica cristiana, non ha l’ultima parola: sul modello della morte e resurrezione di Cristo, la morte cristiana dell'uomo è letta come il suo ingresso in una nuova vita. L'ultimo giorno della vita terrena viene quindi a coincidere con il giorno della nuova vita celeste, trasformandosi in un vero e proprio dies natalis. Allora le frequenti, pur se ellittiche e concentrate, allusioni al pentimento e la proclamazione della conversione, rendono quest’ode non un epicedio (un inno in morte), ma un genetliaco (un inno in nascita). Il Cinque Maggio è il Natale di Napoleone: il primo dei grandi convertiti di Manzoni, prima dell’innominato.

 
 
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