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Cattolica Library
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Quale destino per l’Afghanistan
Lucia Grassi  |  22 settembre 2021

Il 15 agosto 2021, vent’anni dopo gli attentati alle Torri Gemelle del 2001 e l’inizio della missione degli Stati Uniti e della NATO in Afghanistan, i talebani hanno ripreso il potere nel Paese facendo il loro ingresso a Kabul. Nonostante il ritiro delle truppe americane fosse ormai deciso e si trovasse in fase già avanzata (il suo completamento era infatti previsto per il 31 agosto), la riconquista dei principali capoluoghi di provincia e della capitale da parte degli studenti coranici ha sorpreso molti osservatori e analisti (tra cui l’Intelligence americana) per la sua rapidità.

Si è così di fatto assistito al fallimento di un tentativo di “nation building”[1] durato vent’anni e costato moltissime vittime civili, e soprattutto al mancato raggiungimento di quella “rapida transizione verso la democrazia”[2], auspicata dagli Accordi di Bonn del 2001. Non appena entrati a Kabul, i talebani hanno infatti proclamato l’Emirato islamico dell’Afghanistan e hanno formato un governo ad interim composto da soli uomini, privo di altre rappresentanze etnico-religiose e con al suo interno ministri e funzionari tuttora accusati di terrorismo internazionale [3].

Nonostante l’iniziale tentativo di darsi una parvenza meno radicale e più aperta alla modernità, i talebani hanno invece imposto alla popolazione, già dai primissimi giorni di gestione del potere, una serie di misure fortemente coercitive: dall’imposizione del burqua alla proibizione, per le donne, di uscire non accompagnate, dal divieto di ascoltare la musica a quello di guardare la televisione o vedere dei film, solo per citare alcuni esempi[4]. In sintesi, per ora, tutto appare come già raccontava, nel 2002, Khaled Hosseini ne Il cacciatore d’aquiloni:

«La centrale di polizia è sempre allo stesso posto» mi spiegò Farid. «La polizia non manca in questa città. Ma non vedrà certo negozi di aquiloni né qui né da nessun’altra parte. Il tempo degli aquiloni è finito.[5]

Tra le immagini che rimarranno maggiormente nella memoria collettiva ci sono certamente quelle dell’aeroporto di Kabul preso d’assalto dai moltissimi afghani in fuga. Molti di loro sono solo persone che, negli ultimi vent’anni, hanno avuto “il torto” di collaborare con le diplomazie internazionali e le organizzazioni non governative presenti sul territorio per aiutare questo Paese complesso, diviso e purtroppo perennemente in guerra. Aspetti questi ultimi che sono ben descritti da Farhad Bitani, ex capitano dell’esercito afghano (figlio a sua volta di un ex generale dei mujaheddin) attualmente impegnato a Torino come mediatore culturale e promotore della pace:

Dopo la liberazione dai russi, nel 1989, i mujaheddin si erano fatti molto aggressivi. […].  L’Afghanistan divenne il triste teatro di una durissima lotta interna fra le varie fazioni […] . Non ricordo che, prima di allora, fossero mai state sottolineate così tanto le differenze tra pashtun, hazara, tjiki, uzbeki, le principali etnie del mio paese.
Ecco, allora si incominciò. Ed esplose un razzismo estremo. Tutti contro tutti. [6]

Nella mia vita ho visto tante guerre. […] Le etnie erano in guerra tra loro. La crudeltà circolava per la strada. […] Gli stati vicini godevano del perenne stato di guerra del nostro Paese: era un ottimo modo di bloccarne lo sviluppo, di tenerlo in stato di inferiorità.[7]

Quando mio padre è diventato comandante dei mujaheddin in casa ci venivano a trovare tanti mujaheddin. […] Entravano in salotto e buttavano i kalašnikov, o i lanciarazzi RPG in un angolo, liberandosi le mani. Io ci giocavo. Prendevo una bomba a mano e la tiravo nei campi. Anche i miei amici giocavano con le armi. Giocavamo alla guerra.[8]

 


Quello che succederà adesso in Afghanistan è difficile da prevedere. Di certo, in questi ultimi vent’anni, seppur tra molte difficoltà e inadeguatezze, alcuni passi avanti sono stati fatti (come per esempio l’aumento della scolarizzazione femminile e la promozione dei diritti umani). Tali risultati sono stati ottenuti grazie alle diverse iniziative di assistenza e ricostruzione predisposte dagli enti benefici e dalle ONG che hanno lavorato sul territorio e che, in alcuni casi, hanno deciso di restare anche dopo il ritorno dei talebani (a questo riguardo è possibile leggere l’articolo Afghanistan, le ambasciate si svuotano ma la società civile resta). Una decisone quest’ultima importantissima per un Paese con pochi ospedali statali adeguatamente attrezzati, che si trova nel pieno di una gravissima crisi umanitaria e nel quale povertà estrema e malnutrizione affliggono una larga parte della popolazione.

Per meglio conoscere alcune di queste esperienze positive è possibile accedere ad alcune risorse presenti in Biblioteca. Innanzitutto il volume Attraverso i loro occhi: l'Università Cattolica per l'Afghanistan, un riassunto dell’intervento svolto dall’Università Cattolica sul posto, attraverso l’operato del CeSI - Centro di Ateneo per la solidarietà internazionale.

L’esperienza promossa dall’Università Cattolica in Afghanistan si è avviata nel 2009 sviluppandosi con “attività di cooperazione civile-militare” nel settore dell’educazione e della formazione. […] L’Università fece la scelta di inserirsi in quel contesto secondo una semplice logica che si riassume in una facile e evidente affermazione “voi (Esercito) costruite le scuole, noi (Università) facciamo i maestri”[9].

Molto interessanti sono inoltre il reportage realizzato nel 2011 da Monika Bulaj e riportato in NUR: la luce nascosta dell'Afghanistan e il documentario Radio Sahar sulla storia di Humaira, una giornalista di 25 anni nata e cresciuta in Afganistan che, nel 2003 ha fondato un’emittente radiofonica volta a trasmettere un’informazione libera in un Paese segnato dall’analfabetismo e dalla sottomissione femminile.



Un ultimo esempio che è possibile citare è Afghanistan: la cultura come sfida per la ricostruzione, il racconto completo e dettagliato del lavoro in ambito educativo svolto dalla onlus PeaceWaves e corredato da uno splendido servizio fotografico.

Va però rilevato come i progressi sopra citati siano di fatto ricaduti, quasi esclusivamente, sugli abitanti delle città principali. Nelle aree rurali, dove vive oltre il 70% della popolazione, purtroppo, le cose sono andate diversamente e il ritorno dei talebani (che in realtà dalle campagne non se n’erano mai andati davvero) è stato vissuto quasi come un sollievo, una garanzia di pacificazione dopo anni di guerra e violenza. A riprova di ciò basti pensare al fenomeno, solo cittadino, delle coraggiose manifestazioni di protesta contro i talebani, promosse dalle donne anche grazie al sostegno di organizzazioni femministe autoctone quali la Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA).
Questo aspetto, ben descritto da Anand Gopal nell’articolo The other afghan women pubblicato il 6 settembre sul New Yorker, era già stato in parte affrontato in diversi studi disponibili in Biblioteca, tra cui è possibile citare per esempio After the Taliban: life and security in rural Afghanistan.

A chi desiderasse avere un quadro d’insieme e conoscere maggiormente la storia e le complessità sociali di questo martoriato Paese è possibile suggerire, tra i tanti, altri titoli presenti nel Catalogo d’Ateneo come Il grande gioco. I servizi segreti in Asia centrale, Afghanistan: il grande gioco, 1914-1947 , Afghanistan: a cultural and political history e The Afghans, (quattro lavori più focalizzati sugli aspetti storici); Beyond the 'wild tribes': understanding modern Afghanistan and its diaspora (incentrato sulla “diaspora afgana” e l’attuale società civile) e Il futuro dell'Afghanistan: la società afgana ovvero come si può resistere allo stato moderno (un excursus temporale con un tentativo di ipotesi sul domani).

È infine possibile concludere con un tocco di speranza grazie alle parole di Marco Urago, responsabile per i progetti di Emergenza presso la Cooperazione Italiana allo sviluppo ad Herat dal 2008 al 2010 nell’ambito del progetto del CeSI: 

Per chiudere racconto una storia, un episodio, per la prima volta. Nascosto tra le pietre dei muri dell’ospedale di Herat, il mio principale collaboratore afghano mi fece un regalo. Su alcuni mattoni, nascosti tra i tanti che formano i muri, ci sono iscritte alcune iniziali, le mie e quelle di alcuni collaboratori tra i più fidati e capaci. Chissà magari fra 50 anni qualcuno le troverà e si chiederà cosa sono…[10]

 
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Note: 

[1] Gianluca Pastori, 11 settembre, vent’anni dopo. Usa allo specchio, vulnerabili e insicuri, Secondo Tempo, 11/09/2021.

[2] Da Riccardo Redaelli, Lo sforzo internazionale di stabilizzazione e pacificazione in Afghanistan. Un bilancio con la fine di ISAF in Marco Lombardi (a cura di) Attraverso i loro occhi. L’Università Cattolica per l’Afghanistan, Vita  e Pensiero (2016).

[3] Per maggiori informazioni vedi l’analisi dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale Afghanistan: il governo dei Talebani).

[4] Un elenco delle misure adottate è visibile sul sito di Rai News.

[5] Da Khaled Hosseini, Il cacciatore d’aquiloni, Loescher (2007), cit. p. 200.

[6] Da Farhad Bitani, L’ultimo lenzuolo bianco, Guaraldi (2014), cit. p. 31.

[7] Da Farhad Bitani, L’ultimo lenzuolo bianco, Guaraldi (2014), cit. p. 40.

[8] Da Farhad Bitani, L’ultimo lenzuolo bianco, Guaraldi (2014), cit. p. 34.

[9] Da Marco Lombardi, Introduzione in Marco Lombardi (a cura di) Attraverso i loro occhi. L’Università Cattolica per l’Afghanistan, Vita e Pensiero (2016), cit. p. 11/12.

[10] Da Marco Urago, La Cooperazione Italiana a Herat dal 2008 al 2010 in Marco Lombardi (a cura di) Attraverso i loro occhi. L’Università Cattolica per l’Afghanistan, Vita e Pensiero (2016), cit. p. 79.

 
 
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