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Cattolica Library
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Libertà di parola. Dante, il fiorentino arcaico, la scuola d’oggi
Simone Pregnolato  |  22 dicembre 2021
1. Se ci si dovesse interrogare su quale sia, in linea generale, la cifra più caratteristica del volgare dantesco, si potrebbe forse invocare come ipotesi di risposta la categoria della libertà. La lingua della Commedia risponde infatti a un anelito d’assoluta, indomita libertà: concetto da intendersi nella duplice accezione di forzatura e tensione elastica dei confini della tradizione retorica medioevale – entro la quale Dante comunque si muove e resta ben incardinato –, da un lato, e dall’altro nel senso d’inesausta forza plastica, creatrice e demiurgica. La lingua dantesca non è solo una lingua che descrive la realtà nelle sue pieghe anche minime, ma è una lingua performativa, che crea la realtà che nomina, è lingua d’invenzione. L’idioma del «poema sacro | al quale ha posto mano e cielo e terra» (Pd. XXV 1-2), con tutte le sue escursioni atte a coprire «l’intera gamma del reale dal sublime all’abbietto» (come c’insegna il Contini), è un fiorentino «che si potrà proporre come lingua per l’intendimento generale, che incrocia le diverse varietà con suprema libertà: una lingua, quindi, capace di competere col latino, in qualunque settore, e pronta a uscire da quel confronto vittoriosa, e potente» (G. Frosini).

Si possono recintare la libertà inventiva e le capacità d’uso della lingua della Commedia entro una perfetta congruenza fra i differenti registri adoperati da Dante e lo stile imposto dall’ambiente descritto in ciascuna cantica? In altre parole, si può offrire della Commedia una valutazione stilistica per così dire verticale, che muove dal basso dell’Inferno in un’ascensione che si vorrebbe consequenziale e tutto sommato lineare, su su verso le cime latineggianti del Paradiso? Il passaggio progrediente dal tono comico dell’Inferno al tono medio del Purgatorio e a quello sublime del Paradiso c’è senz’altro, ed è evidente ai lettori: ma come va definito riguardo alle categorie della lingua? La gabbia (scolastica) d’una schematizzazione eccessiva degli stili e dei registri – comoda appunto a livello di semplificazione didattica –, secondo la quale l’Inferno è comico, il Purgatorio è mediano e il Paradiso è sublime «va infranta, al pari di qualunque ghettizzazione della lingua di Dante (di cui Pietro Bembo è stato uno dei primi responsabili), che rischia di spezzare la sua profonda unità, che è unità nativa e sorgiva: ce lo insegna l’epistola XIII, ce lo conferma la rivendicazione precisa della dimensione linguistica, ossia il fatto che non più, non solo di stile si tratta (perché le convenzioni dei generi hanno da essere forzate), ma di lingua, che è quella “in qua et muliercule comunicant”» (G. Frosini).

Naturalmente, le semplificazioni sono sempre fondate su fatti autentici: basti pensare, per es., alla scansione di tre “allotropi” in relazione al progredire stilistico delle tre cantiche. Vecchio è Caronte (If. III 83), con termine ordinario e di trafila popolare (< VETULUM); un veglio solo è Catone (Pg. I 31), con più nobile gallicismo (veglio < ant. fr. vieil, prov. velh, vielhs); infine, san Bernardo è un sene (Pd. XXXI 59), con solenne cultismo (il latinismo, invero, è utilizzato due sole volte nel poema, e sempre in riferimento a questo personaggio). I tre sinonimi vecchio/veglio/sene, secondo la scansione Inferno/Purgatorio/Paradiso, realizzano un incremento di prestigio linguistico che va di pari passo col cammino dantesco di attraversamento dell’aldilà, e sono segno della continua ricerca di arricchimento e di diversificazione del lessico volgare. Questo è vero; tuttavia – e ce l’ha ben mostrato Giovanna Frosini, cui si debbono in generale questi rilievi – il fiorentino di Dante è intero e universale: il suo carattere si fonda su una continua estensione delle potenzialità espressive, su un “inclusivismo linguistico” che nulla lascia fuori e tutto accoglie in un mescidanza continua e contemperante. Così, per es., il canto infernale dei lussuriosi s’apre con una similitudine soave: «Quali colombe dal disio chiamate» (If. V 82); per converso, il Paradiso è ricco di violazioni del tono medio, cioè di termini bassi e tremendamente realistici: «e lascia pur grattar dov’è la rogna» (Pd. XVII 129); «fatt’ha del cimitero mio cloaca | del sangue e de la puzza; onde ’l perverso | che cadde di qua su, là giù si placa» (Pd. XXVII 25-27).
Né del resto certi plebeismi infernali, noti alla memoria di qualunque Italiano, andranno per forza considerati delle volute ed esibite spinte verso la volgarità. Gli esempi classici che tutti conosciamo sono quelli delle parolacce: culo («ed elli avea del cul fatto trombetta», in riferimento al diavolo Barbariccia in If. XXI 139) o merda («’l tristo sacco | che merda fa di quel che si trangugia», If. XXVIII 26-27), per citarne due famose. Luca Serianni molto recentemente è ritornato sul lessema merda (lo menzionava già Michele Colombo nel precedente numero di Cattolica Library), e ci ha mostrato che un parlante del Due-Trecento toscano non disponeva d’un ampio spettro sinonimico per indicare tale referente: Dante non avrebbe potuto ricorrere né a feci (mai attestato nelle banche-dati dell’italiano due-trecentesco), né a cacca (lessema limitato, stando alle attestazioni antiche del Corpus OVI, al sintagma cacca degli occhi, ove culmina quel significato ristretto che noi oggi conferiremmo al derivato caccola), e nemmeno a escrementi (peraltro documentato solo al singolare), che aveva il solo valore etimologico d’‘umore secreto dal corpo’. Per Dante, insomma, merda era praticamente opzione obbligata, non una scelta stilistica ‘comica’; merda si dovrà allora sganciare da un preciso e voluto intento di scandalo e oltraggio linguistico da parte dell’autore, così a lungo sottolineato nella scuola. A noi lettori d’oggi della Commedia – sottolinea lo stesso Serianni – «dovrebbe colpire non tanto la parola in sé, quanto la situazione rappresentata».

2. Un secondo punto da precisare, per combattere – se mai dovesse risultare necessario – certi luoghi comuni ancora resistenti, è il concetto d’arcaismo in Dante. Per trattarne, occorrerà ripartire dal fiorentino della Commedia. Grazie agli studi d’Arrigo Castellani e della sua scuola, sappiamo che questo volgare di Toscana subisce un forte moto di rinnovamento delle proprie strutture fonomorfologiche a cavallo fra Due e Trecento, un riassestamento generale e profondo che riguarda con gradi massimi d’innovazione il settore della morfologia verbale (per es., il morfema -iamo di quarta persona dell’indicativo presente, ricalcato per analogia sul congiuntivo di seconda e quarta classe, viene esteso a tutte le coniugazioni verbali e sostituisce le desinenze primarie in -amo, -emo, -imo). In generale, le ragioni di questa ristrutturazione fonetica e morfologica sono molteplici, e non tutte spiegabili con motivazioni intrinseche alla lingua.
Ora, la Commedia è opera interamente scritta nell’esilio, dopo quella data spartiacque ad alto gradiente simbolico che è, come noto, il 1301. La Commedia, quindi, è opera “fuori d’Arno”, scritta nel primo Trecento da un autore che ha formato le sue strutture linguistiche nel secondo Duecento. Giovanni Nencioni, in un suo saggio ormai classico, ha ben mostrato la responsabilità esercitata dall’esilio nei confronti della compagine linguistica del poema, che è stato composto a considerevole e persistente distanza geografica dalla patria, e quindi senza immersione continua nella lingua di Firenze, che proprio in quegli anni assisteva – come s’è detto – a un veloce e profondo momento di trapasso. Sono dunque le generazioni nate all’inizio dell’ultimo quarto del secolo, intorno al 1275 – ossia proprio la generazione di Dante – a vivere direttamente questo momento intensamente evolutivo del fiorentino di città, il passaggio dall’età “arcaica” duecentesca a quella cosiddetta “antica”, o “aurea”, o trecentesca. Ebbene, un’opera dell’esilio come la Commedia non poteva registrare quei mutamenti che solo contatti frequenti con la lingua fiorentina viva potevano permettere d’accogliere nel poema. Dante privilegia, com’è del resto naturale, il fiorentino della sua educazione e della formazione linguistica, quello che sentiva parlare e che parlava quando era in Firenze, sicché egli propende quasi sempre a favore della soluzione più antica, che è quella con la quale è cresciuto.
Tutto questo deve suggerirci una rivalutazione del concetto stesso d’“arcaismo” nella Commedia, che spesso troviamo trattato nei commenti – non solo scolastici – al pari d’un elemento retorico e stilistico espressamente voluto da Dante. Il concetto d’arcaismo potrà invocarsi in senso oggettivo, certo, ma forse molto meno in senso soggettivo, poiché i tratti che troviamo nella Commedia e che noi imputiamo d’arcaismo sono in effetti elementi linguistici cui Dante era abituato nell’uso vivo della sua lingua (molti dei quali attengono, come già si diceva, al settore verbale: si pensi alla desinenza -emo del presente indicativo della seconda  classe, alle desinenze -éo, -ìo della terza persona singolare del perfetto, alle desinenze -aro, -ero, -iro della sesta persona del perfetto, alla -e di seconda persona del presente indicativo e congiuntivo, alla forma originaria del congiuntivo stea, al futuro serà etc.). In definitiva, e nel suo insieme, la fiorentinità della Commedia (una «ragionevole supposizione», scriveva G. Inglese, considerata l’assenza d’autografi) va ricalibrata e riproiettata all’indietro, sull’ultimo scorcio del Duecento. Si potrà allora scardinare su basi prettamente linguistiche e grammaticali la classica e nota classificazione (didatticamente efficace, certo) delle «Tre corone fiorentine» spesa in riferimento a Dante, Petrarca e Boccaccio: autori che, per una lunga fetta della nostra storia letteraria ed editoriale, hanno proceduto insieme, a braccetto, formando un fronte compatto, uno e trino, ma che linguisticamente esibiscono differenze sostanziali. L’Alighieri sarà da intendersi come autore ancora eminentemente duecentesco, il Petrarca e il Boccaccio come uomini e scrittori in toto trecenteschi, anche (e soprattutto) per i suoni e le forme della lingua in cui scrissero i loro capolavori.

3. Da ultimo, meritano un cenno i cosiddetti dantismi, cioè le invenzioni lessicali di Dante, i suoi neologismi veri e propri. Fra le neoformazioni dantesche, com’è per es. il noto termine contrappasso, così indicativo del meccanismo di funzionamento delle pene oltremondane, vanno senz’altro annoverati i parasinteti, cioè quei verbi che sono davvero un emblema della libertà creativa dell’Alighieri: trasumanar («Trasumanar [‘oltrepassare la condizione/natura umana’] significar per verba | non si poria», Pd. I 70-71), e soprattutto i vari prefissati con in- (la base può essere un nome, un pronome, un avverbio...), come inmiarsi, intuarsi, inluiarsi, inmillarsi, imparadisare, incielare, infuturarsi, inforsarsi, imbestiarsi, immegliarsi
Dantismi sono anche quei sintagmi entrati di diritto nel nostro patrimonio di locuzioni fraseologiche, cioè in quella che, con termine tecnico, si chiama paremiologia, il tesoro dei proverbi e delle “frasi fatte” italiane. Eccone una veloce rassegna, offerta senza specificare il luogo dantesco, che si riconoscerà facilmente; l’elenco potrebbe essere davvero lungo: il ben dell’intelletto, far tremar le vene e i polsi, le dolenti note, color che son sospesi, galeotto fu..., onorate l’altissimo poeta, libertà va cercando, ch’è sì cara, | come sa chi per lei vita rifiuta, selva oscura, e caddi come corpo morto cade, sanza ’nfamia e sanza lodo, colui | che fece per viltade il gran rifiuto, il fiero pasto, lasciate ogne speranza, voi ch’intrate, il ben de l’intelletto, la contradizion che nol consente, il folle volo etc.
Tuttavia, il tasso d’innovazione della lingua della Commedia non si misura soltanto in termini di apporti neologici o di memorabilità. Pensiamo anche al caso d’una parola come bolgia (< fr. bolge, bouge ‘sacco’ < *BULGIA), già documentata prima di Dante e il cui significato originario era quello di ‘borsa’, ‘sacco di cuoio’. Oggi il termine è noto solo ed esclusivamente nel senso traslato conferitogli da Dante (che ha pure inventato la neoformazione toponimica Malebolge, If. XVII 1): la traslazione semantica ha preso le mosse da ‘fossa infernale’ per arrivare a ‘luogo di confusione’ e poi, con procedimento di sineddoche, a ‘confusione’: «quindi, se si guarda al rendimento funzionale, anche bolgia è una parola dantesca» (G. Frosini), e Dante alla fin fine ne è l’inventore. Un secondo esempio, analogo al primo, potrebbe essere cavato dal lessico astronomico. Una parola come eclissi costituiva materiale linguistico già a disposizione d’un cultore di scienza del Medio Evo; tuttavia, e una volta di più, andrà riconosciuta in Dante la ragione dell’ingresso del termine nel linguaggio comune: il termine compare nel Convivio, sempre al maschile, e grazie al Convivio viene immesso nell’uso e accede ai circuiti linguistici comuni. In altre parole, va ricondotto all’Alighieri l’ingresso nell’uso di vocaboli che, proprio come eclissi – documentato almeno dal 1282, anno in cui appare per la prima volta nella Composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo –, risultavano già esistenti nella lingua volgare, sì, ma erano circoscritti a contesti tecnici e settoriali. È questa la cosiddetta “funzione Dante”, vitale e fertilissima nella storia della lingua italiana, che trova massima espressione nella Commedia e che è imparagonabile a quella svolta da qualunque altro autore e da qualunque altra opera della nostra storia letteraria.

4. Per concludere, un auspicio. Sarebbe bello che, nella scuola superiore del 2021 (e nonostante l’assenza, più volte biasimata, d’un commento linguistico), s’insegnasse la Commedia di Dante sfruttando maggiormente la sua (la nostra) lingua come strumento privilegiato per accedere a quel testo così fondativo d’una civiltà e d’una lingua. Nella didattica di Dante non serve certo la parafrasi continua (ormai, purtroppo, una costante nelle edizioni scolastiche), né occorrono traduzioni integrali in italiano corrente, già tentate – con scarso successo – per altri autori del nostro Medio Evo o Rinascimento. Domenico De Robertis, grande dantista ed editore delle Rime, asseriva che si può partire da Dante per arrivare alla lingua italiana, ma che si può anche compiere il cammino a ritroso, e arrivare a Dante partendo dall’italiano: perché infatti noi Italiani siamo un popolo che parla una lingua nazionale che ha un cuore antico, molto antico (l’ha mostrato inconfutabilmente Tullio De Mauro col GRADIT), e questo cuore – si può dire – batte al ritmo d’un libro di poesia. Valga anche per noi l’espressione di Farinata degli Uberti in If. X 25-26: «La tua loquela ti fa manifesto | di quella nobil patrïa natio».

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* Fonte dell'immagine in testata: wikipedia.org
 
 
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