La Brexit e l’atteggiamento dei rivoluzionari e della classe lavoratrice di
fronte al referendum del 23 giugno
Approfittare della crisi politica dell’Unione europea o contribuire alla sua risoluzione?
Valerio Torre
Il tema sul referendum che si terrà il prossimo 23 giugno in Gran Bretagna e che dovrà deciderne
la permanenza o meno nell’Unione europea non sembra aver suscitato un grande interesse nella
sinistra italiana. Sia quella riformista, sia quella in qualche modo riferentesi al marxismo rivolu-
zionario, stanno brillando per la loro scelta di astenersi di fatto da un dibattito che, invece, è
cruciale per i lavoratori e le masse sfruttate di tutta Europa; e anche quando hanno esposto una
posizione non l’hanno mai fatto da un versante di classe. Sicché, nel panorama delle poche righe
scritte al riguardo, si può spaziare da Rifondazione comunista, che prende a pretesto l’argomento
Brexit soltanto per rendere l’ennesimo omaggio al riformista Corbyn e alla sua balzana idea di
“riformare” l’Ue1, a Sinistra anticapitalista2, che si sofferma sinteticamente solo sull’accordo con-
cluso da Cameron il 19 febbraio scorso3 e sul quale si svolgerà la consultazione referendaria,
fino al Partito di Alternativa comunista, che si limita a tradurre e pubblicare la dichiarazione della
Isl (International Socialist League), sezione inglese della Lit-Quarta Internazionale, secondo cui
il referendum non sarebbe altro che un affare tra padroni, una sorta di disputa interborghese,
per cui i lavoratori dovrebbero limitarsi a tirarsene fuori4.
Come si vede, si tratta di opinioni del tutto insoddisfacenti e inidonee ad affrontare un tema dalle
ricadute importanti, non solo per le sorti delle borghesie, europee e mondiali, quanto soprattutto
per le classi lavoratrici del continente.
Crediamo importante, perciò, affrontare quest’argomento, e farlo dandone una lettura di classe;
ma altrettanto necessario, prima di esaminarlo, soffermarci sull’Unione europea, la sua natura
profonda e la sua realtà attuale.
Il manifesto di Ventotene, base fondativa dell’attuale Ue
Mai, come durante la recente – e ancora in atto – crisi greca, la “questione Europa” è stata così
al centro dell’attenzione generale. Mai, come durante gli otto mesi dalla nascita del governo
Syriza – costellati dalle estenuanti trattative con la Troika, dal referendum che ha visto la signi-
ficativa vittoria dell’OKI prevalere contro le politiche di austerità e infine dalla capitolazione di
Tsipras, dalle sue dimissioni e dal nuovo governo che ha formato, ancora più di prima al servizio
dell’Ue – le masse popolari del Vecchio Continente hanno avuto la percezione della pervasività
del potere delle istituzioni europee sulle loro vite.
E tuttavia, questa percezione – che sfocia in un indistinto “euroscetticismo”, cioè in un crescente
ma poco consapevole sentimento popolare di rifiuto verso l’euro e l’Europa – non è affatto chiara.
È confusa. Senza una lettura da un versante di classe dà luogo a risposte, nel migliore dei casi,
sbagliate e inadeguate; nel peggiore, al ripiegamento in chiave nazionalistica e, attraverso la
difesa della “patria” nazionale, al rinvigorimento dell’estrema destra populista, razzista e xeno-
foba.
Tralasciando questa seconda ipotesi e restando nel campo della prima attraverso un riferimento
su cui torneremo in seguito sviluppandolo adeguatamente, la lista “L’Altra Europa con Tsipras”
– cioè quell’informe agglomerato composto da settori di Sel e Prc postisi agli ordini di intellettuali
piccolo-borghesi come Marco Revelli che se ne sono autoproclamati “padri fondatori” – ha nel
suo programma fondativo la rivendicazione del Manifesto di Ventotene. Si tratta del documento
redatto da intellettuali antifascisti confinati sull’isola di Ventotene durante il ventennio mussoli-
niano (tra cui Altiero Spinelli, padre dell’attuale parlamentare europea Barbara, eletta con la lista
Tsipras) e che prefigurava la costruzione di un’Europa federale, dotata su scala continentale di
un parlamento e di un governo sovranazionale dotato di poteri reali in materia economica e di
politica estera.
Ora, Rifondazione e Sel, richiamandosi a quel Manifesto, denunciano un preteso sbilanciamento
in Europa del potere finanziario a scapito dei poteri del parlamento e rivendicano la costruzione
1
“Corbyn vuole forgiare una nuova alleanza della sinistra europea per contrastare la posizione di Cameron sull’Ue”
(http://tinyurl.com/hcpftna).
2
“Brexit, l’accordo Cameron–Merkel sulle spalle dei lavoratori” (http://tinyurl.com/z9qbcbc).
3
Sul senso e la portata dell’accordo ci soffermeremo più oltre in questo testo.
4
“Quello sulla Brexit è un dibattito tra padroni. Boicottare il referendum del 23 giugno” (http://tinyurl.com/h6wmzqa).
di “un’altra Europa”, quella dei popoli, ecologica, sociale, democratica, salvaguardandone però
l’attuale architettura istituzionale e monetaria. Ci sarebbe cioè un’Europa cattiva – quella dei
banchieri, della Merkel e di Schäuble – e una buona: quella, appunto, del Manifesto di Ventotene,
snaturata oggi dalla “perfida finanza”.
Ma chi abbia la pazienza di leggere questo manifesto 5 potrà notare non solo che vi è sviluppata
una critica feroce al marxismo (tanto che persino un socialista tutt’altro che rivoluzionario come
Sandro Pertini ritirò la firma che in un primo momento aveva dato al documento), ma che rap-
presenta la base fondativa per la costruzione di uno spazio economico europeo in cui i capitali
possano muoversi liberamente: per la costruzione, cioè, di un’economia capitalista che possa
competere su uno scenario più ampio con quella statunitense. Per questo, diversamente da
quanto possano pensarne Ferrero o Vendola, il Manifesto di Ventotene non costituisce affatto il
caposaldo della “democratica Europa dei popoli” da loro vagheggiata, ma rappresenta invece
proprio l’anima dell’Unione europea che conosciamo noi oggi.
Ed ecco perché editorialisti economici così sbandierati dalla sinistra riformista italiana e interna-
zionale, come Wolfgang Münchau in un recente articolo 6, hanno torto a dolersi del fatto che
l’atteggiamento dei creditori verso la Grecia avrebbe privato il progetto dell’eurozona dall’ambi-
zione di costruire un’unione politica ed economica. L’euro, invece, ha costituito sin dal primo
momento un disegno politico: cioè esattamente quello che abbiamo davanti agli occhi. L’Ue nel
progetto delle borghesie continentali non può che fondarsi sull’euro.
L’integrazione europea e le sue false promesse
Uno storico marxista, Perry Anderson, in un recente articolo sulla crisi greca 7, parlando
dell’unione monetaria, riferisce che, a dispetto della propaganda ufficiale, i vantaggi economici
della c.d. “integrazione europea” sono stati in realtà molto modesti. E cita, a supporto, lo studio
svolto da due economisti filoeuropeisti che hanno calcolato:
che l’integrazione ha incrementato il Pil del mercato comune solo del 3-4% tra la fine
degli anni ’50 e la metà degli anni ’70;
che l’impatto del Sistema monetario europeo è stato insignificante;
che l’Atto unico europeo – cioè il trattato che, emendando quello del 1957 con cui fu
costituita la Comunità economica europea, fu concepito per completare la costruzione del
mercato interno bloccata dalle crisi economiche degli anni ’70 e per avviare un primo
embrione di unione politica – può aver aggiunto al massimo un altro 1%;
e che l’unione monetaria non ha avuto nessuna ripercussione sulla crescita della produ-
zione.
Questo studio fermava i suoi calcoli al 2008 e, quindi, a prima della crisi economica ancora in
atto.
Da allora – dice Anderson – la camicia di forza della moneta unica è stata tanto disastrosa per
gli Stati del sud Europa quanto vantaggiosa per la Germania, dove la repressione salariale, che
nasconde una crescita della produttività molto debole, ha assicurato il vantaggio competitivo
dell’industria tedesca rispetto al resto dell’Europa. Quanto al tasso di crescita, il paragone con le
cifre del Regno unito o della Svezia dopo Maastricht basta a smontare l’affermazione che l’euro
avrebbe beneficiato qualsiasi altro Paese diverso dal suo architetto.
E questa – conclude Anderson – è la realtà della “famiglia europea” come è stata costruita
dall’unione monetaria e dal patto di stabilità: eppure, per l’ideologia dominante, l’Ue continue-
rebbe a garantire la pace e la prosperità del continente, allontanerebbe lo spettro della guerra
tra le nazioni, difenderebbe i valori della democrazia e dei diritti umani, farebbe rispettare i
principi di un libero mercato moderato, base di tutte le libertà.
Sulla base di queste stesse ipocrite motivazioni, nel 2012, all’Unione europea è stato conferito il
premio Nobel per la pace8.
Ogni commento sarebbe superfluo, se non fosse che è pur sempre necessario dare una lettura
di classe della realtà che è sotto i nostri occhi.
Le idee portanti alla base della costruzione dell’Ue
Le borghesie continentali non stanno affatto costruendo l’Europa della pace, della democrazia e
dei diritti sociali:
5
Scaricabile, tra le altre, dalla pagina web http://tinyurl.com/gtrj2qc.
6
“Los brutales acreedores de Grecia han demolido el proyecto de la eurozona” (http://tinyurl.com/p8w6mv5).
7
“El error de Tsipras” (http://tinyurl.com/zgxsh3h).
8
“The Nobel Peace Prize for 2012” (http://tinyurl.com/8sfucl3).
la c.d. Europa della pace è quella che ha bombardato Belgrado, l’Afghanistan e la Libia.
È quella che sta conducendo una lotta senza quartiere contro i migranti che fuggono dai
loro Paesi in cerca di una vita migliore, annegandoli nel Mediterraneo. È quella che tollera
la costruzione del muro della vergogna con cui l’Ungheria, seguita da qualche altro Paese,
blinda le proprie frontiere;
la c.d. Europa democratica è quella delle misure repressive contro il proletariato giustifi-
cate dalla lotta al terrorismo9;
la c.d. Europa dei diritti sociali è quella che ha liquidato il welfare, scatenando un’offensiva
brutale fatta di precarietà, disoccupazione e miseria per le classi subalterne.
Al contrario della vulgata dominante, l’attuale Ue nacque invece da un accordo che i Paesi im-
perialisti dell’Europa occidentale raggiunsero per competere per il dominio dei mercati mondiali
con i blocchi imperialisti concorrenti, Stati Uniti e Giappone. La ragione di quest’intesa, cioè,
stava nella consapevolezza delle borghesie continentali di non essere in grado di disputare i
mercati mondiali isolate nei confini dei propri Stati nazionali.
Washington sostenne da subito i progetti europeisti, sia per creare un bastione di contrapposi-
zione al blocco orientale filosovietico, sia per realizzare un mercato capitalista unificato su cui
riversare le proprie esportazioni. D’altro canto, le borghesie europee, sfiancate da sei anni di una
guerra così distruttiva, volevano uscire dal caos economico del dopoguerra evitando la balcaniz-
zazione prodottasi dopo la guerra del ’15-’18. Tuttavia, i loro settori più coscienti pensarono a
un progetto che andasse oltre il cartello doganale sostenuto dagli Usa: cioè, appunto, un com-
petitore multinazionale degli imperialismi statunitense e giapponese per disputare il mercato
mondiale.
Il rafforzamento e la trasformazione qualitativa dell’Ue alla base di questo progetto perseguiva
e persegue diversi obiettivi:
1. il primo sta nel favorire la concentrazione capitalista a livello regionale, con lo sviluppo –
sotto l’impulso degli Stati più forti – di settori economici chiave, come l’industria aero-
nautica o armamentistica, la siderurgia, la petrolchimica, ma anche i servizi e le banche.
Ciò non significa che le diverse borghesie puntino a un capitalismo unificato su scala
europea attraverso una progressiva fusone tra loro. Esse vogliono invece determinare il
processo per la creazione delle condizioni per le concentrazioni capitalistiche, imprescin-
dibili per competere sui mercati conquistandone nuove fette;
2. il secondo obiettivo è dato dal coordinamento a livello europeo degli attacchi delle diverse
borghesie ai rispettivi proletariati;
3. il terzo sta nella facilitazione della penetrazione imperialista nelle zone di influenza
dell’Asia, Africa, America Latina e, ora, nell’Est europeo.
In questo senso, l’Ue – come risultante di un processo di integrazione economica senza prece-
denti – non è uno Stato sovranazionale, ma neanche rappresenta un semplice organo di coope-
razione intergovernativa. L’Ue rappresenta invece l’alto grado di unificazione economica del con-
tinente, riproduce il carattere continentale delle sue forze produttive e delinea la necessità
dell’eliminazione delle frontiere e degli Stati nazionali come li conosciamo in Europa. Ma, al con-
tempo, rappresenta anche la negazione di tutto questo, essendo il frutto di un accordo fra bor-
ghesie imperialiste che non possono, né vogliono, prescindere dai loro propri Stati nazionali, che
costituiscono pur sempre l’elemento decisivo per la difesa dei loro rispettivi capitalismi nel mer-
cato mondiale e per mantenere la lotta di classe entro i limiti di quegli Stati.
In altri termini, nessun imperialismo europeo, finché resta tale, può intendere l’unificazione
dell’Europa se non sull’egemonia dei suoi propri interessi nazionali imperialisti e per schiacciare
il proletariato.
In questo quadro, l’integrazione economica e produttiva a livello europeo, con l’ingresso di nuovi
Stati (come, da ultimo, quelli dell’Europa centrale e dell’est) si fonda sulla diseguaglianza, di cui
si nutre e che amplifica in un mutuo processo di rialimentazione: abbiamo cioè, da una parte,
una periferia continentale interessata da un processo di specializzazione produttiva di tipo re-
gressivo, come somministratrice di beni a bassa tecnologia e mano d’opera a basso costo; e,
dall’altra, un centro industriale concentrato intorno ai Paesi del nord capeggiati dalla Germania.
In mezzo, imperialismi decadenti come Italia e Spagna ai quali viene assegnato uno strapuntino
in questa catena di valore in cui ognuno degli Stati occupa il suo posto.
9
È quello che stiamo verificando proprio in questi giorni in Francia, dove lo stato d’eccezione promulgato dalle leggi
antiterrorismo varate dopo gli attentati del 13 novembre 2015 viene utilizzato oggi per reprimere le manifestazioni di
protesta contro l’approvazione della legge El Khomri, cioè l’equivalente del nostrano Jobs act (http://tinyurl.com/gtlelr3).
L’architettura istituzionale dell’Unione europea
L’architettura istituzionale dell’Ue si fonda:
1. su una banca centrale (la Bce) con una moneta (l’euro) comune tra i Paesi della c.d.
“eurozona”;
2. su un potere di orientamento politico generale (in capo al Consiglio europeo, anche detto
Consiglio dei capi di Stato e di governo);
3. e su un potere esecutivo e legislativo suddiviso tra un Consiglio dell’Unione europea (for-
mato dai ministri dei singoli governi), una Commissione e un parlamento.
Ma, come al solito, la borghesia si fa le leggi e poi le vanifica a proprio piacimento. Infatti, mentre
per trattato spetterebbe alla Commissione e al parlamento il compito di adottare risoluzioni e
normative che i singoli ordinamenti nazionali debbono poi recepire, di fatto è il Consiglio europeo,
nel bilanciamento istituzionale, quello che ha il peso più rilevante, dato che decide gli orienta-
menti politici generali a breve termine. Lo conferma un politico non sospettabile di simpatie
bolsceviche – l’ex premier Enrico Letta – che in una recente intervista ha spiegato come sia
proprio il Consiglio europeo a detenere il vero potere decisionale, adottando scelte che sono
(citiamo testualmente) «l’alfa e l’omega della vita comunitaria» 10.
Perciò, benché detenga sulla carta il potere esecutivo e di proposta legislativa, la Commissione
europea in realtà dipende dal Consiglio europeo, poiché sono proprio i capi di Stato e di governo
dei diversi Paesi dell’Ue che lo compongono a concertare e realizzare le politiche reazionarie di
attacco al proletariato: in questo senso, è pura demagogia – quella della sinistra riformista –
considerare la Commissione come la fonte di tutti i mali, quando sono invece i distinti governi
(riuniti nel Consiglio europeo) i responsabili delle misure antioperaie e antipopolari.
Come pure è demagogia – sempre da parte della sinistra riformista – considerare che i problemi
della costruzione europea risiedano in un preteso “deficit democratico”, e cioè nel predominio di
Consiglio e Commissione a scapito del parlamento, sicché basterebbe spostare quest’asse per
riformare l’Europa. In realtà, l’integrazione su scala continentale è stata realizzata dall’alto, sulla
base di accordi fra governi in rappresentanza delle rispettive borghesie, e la figura del parla-
mento nell’architettura istituzionale europea è servita solo a conferire all’Ue una patente di fittizia
legittimità democratica.
Secondo le miopi sinistre socialdemocratiche è solo nell’attuale fase di sviluppo del capitalismo
che la finanza avrebbe preso il sopravvento. E invece, il parlamento europeo è stato sin dal primo
momento concepito proprio e solo come un organismo di potere consultivo e codecisionale di
rango secondario rispetto al Consiglio e alla Commissione: cioè come un organismo di legittima-
zione e di copertura pseudo-democratica di decisioni assunte altrove. In questo senso, rappre-
senta un’appendice delle politiche nazionali, dato che vi siedono i rappresentanti degli interessi
nazionali delle diverse borghesie.
Perciò la pretesa dei riformisti di “riformare” e “democratizzare” l’Ue costituisce una vera e pro-
pria sciocchezza, oltre ad essere una pericolosa posizione reazionaria.
L’euro
Uno degli strumenti su cui si fonda la dominazione dei distinti capitalismi europei sul proletariato
del continente, e in particolare su quelli dei Paesi periferici (come la crisi greca ha mostrato), è
la moneta unica.
L’euro è il congegno nelle mani dei poteri economici per schiacciare la classe lavoratrice. Non
solo: è il fondamento principale perché le borghesie europee possano attaccare i salari estraendo
maggiori quote di plusvalore, contrastando così – soprattutto in una fase come quella attuale di
crisi economica – la caduta del saggio di profitto per risultare più competitive sui mercati mon-
diali.
Da quando, con l’introduzione del sistema della moneta unica a cambi fissi, i singoli Stati aderenti
hanno perduto la possibilità di effettuare svalutazioni competitive delle loro precedenti monete
nazionali per poter vendere meglio all’estero, non è rimasta che un’opzione (peraltro, quella
preferita dai padroni) per migliorare la competitività: attaccare i salari e i diritti lavorativi ridu-
cendo così il costo del lavoro e, attraverso un maggiore sfruttamento della classe lavoratrice,
aumentare i profitti.
Come abbiamo già visto, l’integrazione economica europea si fonda sulla diseguaglianza tra eco-
nomie centrali e periferiche. L’Ue non è una “transfer union”, cioè un’unione di trasferimenti di
risorse come possono esserlo gli Stati Uniti, in cui al governo centrale spetta la redistribuzione
finanziaria verso la periferia. Semmai, l’area euro funziona come una transfer union al contrario:
10
“Come Germania comanda”, Limes, n. 7/2015, pp. 139 e ss.
poiché Berlino vede il mondo (ma soprattutto l’Europa) solo come mercati da conquistare grazie
all’eccellenza dei propri prodotti, il centro del sistema europeo – cioè quello spazio manifatturiero
il cui nucleo è costituito dalla Germania con intorno la macroarea che va dal Baltico alla Mitte-
leuropa fino all’Italia del Nord – è in surplus commerciale permanente rispetto alla periferia 11.
Questo centro assorbe cioè liquidità dagli europartner, ai quali però prescrive feroci politiche di
austerità inducendovi deflazione con relativo incentivo alla svendita di asset strategici12 (ne ab-
biamo avuto conferma col terzo Memorandum imposto alla Grecia che ha ceduto gli aeroporti
regionali a società tedesche).
Questo processo rafforza la catena produttiva orchestrata dalla Germania, che vede consolidare
il suo dominio nel mercato europeo e mondiale di beni industriali ad alta tecnologia, mentre
determina la ricollocazione verso il basso di altri Paesi nella gerarchia degli Stati.
Olivier Passet, ex economista dell’Osservatorio francese delle congiunture economiche (presti-
gioso centro di ricerca che fa capo all’altrettanto prestigioso Istituto di studi politici di Parigi,
esclusiva università in cui si è formata l’élite politica e amministrativa francese), ha un’opinione
molto chiara dell’euro: la moneta unica – secondo Passet – genera austerità permanente, non
solo nell’attuale fase di crisi, ma persino in regime economico normale. Proprio perché l’eurozona
è rappresentata da un’Europa a due velocità (una “zona di divergenze” la definisce l’economista),
il guadagno di competitività globale dell’area centrale condanna ai salari bassi le economie della
periferia.
L’austerità – conclude Passet – non è un periodo di transizione che passerà: era «già scritta nei
geni dell'Europa». Era, insomma, al centro del progetto dell'euro fin dai suoi albori13.
Se lo dice un economista borghese, c’è da crederci!
Il debito pubblico
L’altro strumento su cui si fonda il dominio di quella autentica macchina da guerra imperialista
contro i lavoratori e i popoli europei dal nome di Unione europea è il debito pubblico.
Non scenderemo qui nei dettagli di questo tema. Ci limiteremo a segnalare che «il debito pubblico
è il debito che il settore pubblico di un paese contrae nei confronti di soggetti ad esso esterni
(famiglie, imprese, istituzioni finanziarie) … [con] lo scopo di procurare … mezzi di pagamento
necessari a finanziare il deficit pubblico, e cioè l’eccesso di spesa pubblica (inclusi gli interessi
sul debito) rispetto alle entrate dello stesso settore pubblico» 14. Il debito pubblico, che è cioè il
debito accumulato nel tempo dalle istituzioni della pubblica amministrazione, è dato dalla somma
dei deficit, cioè dei disavanzi che si producono negli anni fra entrate e uscite. Nelle uscite vanno
ricompresi gli interessi.
Accade in altri termini che gli Stati debbano periodicamente ricorrere ai mercati per rifinanziare
il proprio debito. E lo fanno emettendo, a garanzia dei prestiti ricevuti, dei titoli con cui alla
scadenza viene riconosciuto al prestatore un interesse. Ma ciò li obbliga a contrarre nuovi debiti
per pagare appunto quelli in scadenza, in una perversa spirale senza fine in cui sono gli interessi
a far lievitare il debito. Intanto, i creditori utilizzano i titoli del debito pubblico come valori circo-
lanti e vendibili ben prima che arrivino a scadenza. In proposito, già Marx spiegava che in realtà
«i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbli-
gazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero
tanto denaro in contanti»15.
Come si vede, già nel XIX secolo Marx era in grado di delineare con estrema chiarezza due degli
elementi che ancora oggi noi percepiamo al centro del tema del debito pubblico: i titoli di Stato
attraverso cui esso viene rappresentato (le “obbligazioni facilmente trasferibili”) e il ruolo pre-
dominante delle banche (che Marx chiamava la “bancocrazia”). Ma la genialità della sua analisi
sta nel fatto che Marx aveva compreso che «con i debiti pubblici è sorto un sistema di credito
internazionale che spesso nasconde una delle fonti dell’accumulazione originaria di questo o
di quel popolo»16.
Come aveva già spiegato ne “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” 17, «l’indebitamento
dello Stato era … l’interesse diretto della frazione della borghesia che governava e legiferava per
11
Basti pensare che nel 2014 la Germania ha venduto all’estero il 45% del suo Pil, di cui il 57% all’interno dell’Ue (Dario
Fabbri, “Geopolitica e grammatica: perché la Germania non può essere America”, Limes n. 7/2015, p. 118.
12
In tal senso, espressamente, l’editoriale di Limes n. 7/2015, “Sembrare ed essere”, p. 19.
13
“Comment l’euro va continuer à provoquer l’austérité”, http://tinyurl.com/nkglz5a.
14
R. Ciccone, “Sulla natura e sugli effetti del debito pubblico”, in Oltre l’austerità, Micromega, 2012, pp. 79 e ss.
15
K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, 1994, Libro I, sez. VII, cap. 24, p. 817.
16
Karl Marx, op. cit., p. 818 (l’evidenziazione è nel testo originale).
17
Cap. I, “La disfatta del giugno del 1848”.
mezzo delle Camere. Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua spe-
culazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quat-
tro o cinque anni un nuovo prestito offriva all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di
truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull’orlo della bancarotta, era costretto a con-
trattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli. Ogni nuovo prestito era una nuova occasione
di svaligiare il pubblico, che investe i suoi capitali in rendita dello Stato, mediante operazioni di
Borsa al cui segreto erano iniziati il governo e la maggioranza della Camera. In generale la
situazione instabile del credito pubblico e il possesso dei segreti di Stato offrivano ai banchieri e
ai loro affiliati nelle Camere … la possibilità di provocare delle oscillazioni straordinarie improv-
vise, nel corso dei titoli di Stato; e il risultato costante di queste oscillazioni non poteva essere
altro che la rovina di una massa di capitalisti più piccoli e l’arricchimento favolosamente rapido
dei giocatori in grande».
La crisi capitalistica scoppiata nel 2007 ha mostrato che, nella sua fase agonica, il capitalismo
scarica sulle spalle dei lavoratori il peso delle misure che mette in campo per contrastare la
caduta del saggio di profitto. Così, la dominazione imperialista si esprime nel fatto che le classi
subalterne sono obbligate a mantenere in vita il capitalismo, non solo e non tanto in epoca di
benessere, ma soprattutto oggi, in epoca di crisi. In realtà, proprio l’attuale tappa della crisi è
segnata da un crescente parassitismo, reso evidente dall’estrazione di una massa crescente di
ricchezza in tutti i Paesi.
Man mano che la crisi avanza e l’investimento nella produzione cessa di essere una buona fonte
di profitti per la borghesia, l’indebitamento progressivo dello Stato con il capitale finanziario –
che costituisce una gran parte del debito pubblico – tende ad aumentare costantemente al punto
tale che l’attuale debito è impossibile da pagare se non al prezzo di un’intera epoca di profonda
miseria per diverse generazioni di lavoratori, dell’annullamento pressoché totale di tutti i diritti
sociali conquistati nel tempo e, in definitiva, dello smantellamento progressivo dell’apparato pro-
duttivo18.
Il debito pubblico, insomma, rappresenta il principale strumento – insieme all’euro – di sotto-
missione dei popoli europei. I tagli dei bilanci statali, eufemisticamente definiti “aggiustamenti
strutturali”, non trovano nessuna giustificazione nella crisi economica, né nei deficit, ma costi-
tuiscono invece il congegno di espropriazione dei bilanci pubblici per salvare le banche, come
proprio la vicenda greca ha indubitabilmente mostrato19.
L’atteggiamento della sinistra italiana rispetto al debito pubblico e all’euro
La sinistra socialdemocratica e quella centrista affrontano il problema del debito pubblico da un
versante riformista.
Rifondazione comunista, ad esempio, fedele alla propria appartenenza al Partito della sinistra
europea (Pse), rifiuta strenuamente l’uscita dall’euro, mentre propone la ristrutturazione del
debito pubblico, cioè la modifica delle condizioni dei prestiti, ad esempio allungandone la durata
e/o abbassandone i tassi. Come si vede, si tratta di un intervento di puro maquillage con il quale,
continuando a pagare religiosamente (sia pure a diverse condizioni) il debito, vengono conser-
vate e salvaguardate le condizioni per la spoliazione delle masse popolari da parte del capitalismo
imperialista. D’altro canto, si tratta del programma elettorale con cui Syriza è andata al governo
(e che poi ha persino abbandonato accettando il terzo Memorandum).
Per Rifondazione e gli altri partiti della Sinistra europea, invece, sarebbe necessario – come
abbiamo già argomentato – rifondare l’Europa riequilibrandone i poteri (in favore del parlamento
europeo e in danno della Commissione) e sviluppando la «democrazia partecipativa nelle istitu-
zioni e nelle imprese» 20. Si comprende perciò il rifiuto della parola d’ordine dell’uscita dall’euro,
dal momento che il Prc esprime in definitiva una posizione di difesa dell’Ue che presuppone
l’accettazione delle basi del progetto imperialista della “unità dell’Europa”. D’altronde, prima
della sua elezione Tsipras ha a più riprese proclamato che il programma di Syriza prevede di
«promuovere un piano europeo per la salvezza dell’eurozona» 21.
Dal canto suo, Sinistra anticapitalista giunge, attraverso un percorso apparentemente più radi-
cale, a conclusioni non dissimili, ritenendo impensabile – per risolvere il problema del debito –
18
A marzo 2016 il debito pubblico italiano ha segnato un nuovo, poco invidiabile record: 2.228,7 miliardi di euro (per
chi fosse “affezionato” alla lira, si tratta dell’iperbolica cifra di oltre quattro milioni trecentomila miliardi di vecchie lire!).
19
Un studio dell’European School of Management and Tecnhology, che ha sede a Berlino, ha rivelato che ben il 95% dei
prestiti alla Grecia (pari a oltre 210 dei 220 miliardi di euro concessi) è andato a finire nelle casse delle banche europee,
mentre solo 9,7 miliardi sono entrati nelle casse dello Stato ellenico (http://tinyurl.com/zzehrdz).
20
Così, testualmente, recita il documento approvato nel IV congresso del Pse.
21
Alexis Tsipras at the Kreisky Forum, Vienna (http://tinyurl.com/pbudgbc).
rompere con l’Ue e uscire dall’euro. Piuttosto, sarebbe necessario che un “governo di sinistra”
(quale?) decida una moratoria (e non un rifiuto del pagamento) del debito e organizzi un «audit
civico (…) per individuare il debito illegittimo», imponendo quindi ai creditori il concambio dei
titoli, vale a dire la ristrutturazione del debito (in ultima analisi, come abbiamo già visto, la
continuazione del pagamento a diverse condizioni). Tutto ciò, sullo sfondo di un’illusoria “rifon-
dazione democratica e cooperativistica dell’Europa”: come si vede, la stessa posizione del Prc,
agghindata con qualche pennellata di rosso.
Ma è particolarmente subdola – e va smascherata – la proposta dell’audit civico, una sorta di
commissione popolare che dovrebbe verificare quanta parte del debito pubblico sia “illegittima”.
In realtà, non c’è bisogno di istituire alcuna commissione per stabilire che solo i titoli detenuti
dai piccoli risparmiatori vanno onorati.
Ma si tratta anche di una proposta confusa. Ad esempio, le spese statali per la sanità sono
“legittime” oppure no? Non dubitiamo che i proponenti dell’audit risponderebbero di sì: dimenti-
cando però che gran parte di quelle spese vanno a riempire le tasche delle multinazionali del
farmaco. Questo significa forse che lo Stato non deve impegnare risorse per la salute delle masse
popolari? Chiaro che no! Ma questo problema – come altri che la realtà economica ci pone – può
essere risolto solo nel quadro delle misure anticapitalistiche su cui ci soffermeremo nel prosieguo
di questo testo, e non attraverso quest’inutile audit.
E ancora: la Rete dei comunisti (la micro-organizzazione stalinista che dirige clandestinamente
il sindacato Usb) avanza una proposta che apparentemente sembra puntare all’uscita dall’euro
e alla rottura con l’Ue in funzione del rifiuto del pagamento del debito. Ma, mentre rispetto a
questo, lo limita a “una parte consistente” ipotizzando “la rinegoziazione (…) del residuo” (non
diversamente da quanto prospettano le altre organizzazioni riformiste, come abbiamo visto),
l’uscita dall’euro è avanzata in chiave monetarista (con il mantenimento dell’euro come moneta
dei Paesi forti e come unità di conto e mezzo di pagamento per le transazioni ufficiali; e la
creazione di una “eurolira” degli Stati deboli del sud dell’Europa che andrebbero a formare
un’area capitalistica euro-afro-mediterranea sul modello dell’Alba latinoamericana e battereb-
bero questa moneta che, svalutata, dovrebbe fare concorrenza a quella ufficiale)22.
Ancora peggio va con la proposta di rottura con l’Ue, che la Rete dei comunisti propone di pra-
ticare in blocco con l’analogo desiderio di settori emarginati e in crisi della borghesia nazionale,
e quindi nell’eterna riproposizione di uno dei cavalli di battaglia dello stalinismo23!
Debito pubblico, euro e Unione europea: c’è una sola via d’uscita, rompere con l’Ue
Per contrastare la crisi di indebitamento, dunque, il capitale finanziario applica due misure com-
binate: l’espropriazione diretta del bilancio pubblico (con lo smantellamento e la privatizzazione
dei servizi pubblici e delle pensioni) e l’aumento brutale dello sfruttamento dei lavoratori attra-
verso l’abbassamento dei salari, l’aumento dei ritmi e della giornata di lavoro, i licenziamenti
facili, l’abolizione della contrattazione collettiva. Questo processo, ferocemente portato avanti
utilizzando appunto i due strumenti della moneta unica e del debito pubblico nel quadro dell’Ue
e delle sue istituzioni, rappresenta l’asse centrale dei piani di saccheggio del capitalismo.
Il debito è uno strumento per ottenere un grado di cambiamento strutturale per cui nulla sarà
come prima per i lavoratori dei Paesi europei. Per questo, la lotta per il rifiuto del pagamento del
debito deve andare di pari passo con la battaglia per espropriare le banche, fermare e invertire
lo smantellamento dei servizi pubblici, abolire le controriforme del lavoro e ripartire il lavoro
stesso. Ma queste misure implicano l’uscita dall’euro e la rottura con l’Ue.
L’Ue è, per come l’abbiamo finora esaminata, la piattaforma degli imperialismi centrali europei,
egemonizzata dal capitalismo tedesco in associazione (non priva di contraddizioni) con l’impe-
rialismo nordamericano, in cui i capitalismi periferici – come quello italiano – giocano il ruolo
subalterno di soci di minoranza. Le condizioni della concorrenza internazionale e della divisione
sociale del lavoro nell’Ue fanno sì che la sopravvivenza del decadente capitale finanziario italiano,
come quello degli altri capitalismi di secondo o terzo livello – e la loro collocazione nel mercato
mondiale dipendano dalla sua permanenza nell’Ue e nell’euro. Ma il prezzo per questa perma-
nenza è enorme: la prospettiva, che per alcuni Stati come la Grecia si è già concretata, della
soggezione tendenzialmente completa agli ordini della Troika, della disoccupazione massiccia e
dell’imposizione di un nuovo standard di sfruttamento che non ha nulla da invidiare a quello di
22
Andrea Ricci, “Un’alternativa europeista al crollo dell’euro”. Nel mentre va sottolineato l’utilizzo dell’aggettivo “euro-
peista” già a partire dal titolo, tanto per mettere in chiaro i confini della proposta, giova segnalare che, originariamente
pubblicato sulla pagina http://www.contropiano.org/interventi/item/18065-unalternativa-europeista-al-crollo-delleuro,
l’articolo risulta ora rimosso. Tuttavia, può ancora essere letto all’indirizzo http://tinyurl.com/jcvsma9.
23
“Fuori dall'Unione Europea. Una proposta politica per il cambiamento” (http://tinyurl.com/jooyqjz).
Paese semicoloniale.
Proprio per questo, la rottura con l’Ue e l’uscita dall’euro sono assolutamente necessarie e deb-
bono rappresentare la bandiera da agitare per i lavoratori. Senza di esse non c’è soluzione alla
crisi.
Ma da sole non potranno risolvere nulla se non accompagnate dalle misure anticapitalistiche di
base, necessarie per difendere il Paese dal boicottaggio estero:
rifiuto del pagamento del debito;
esproprio delle banche;
nazionalizzazione di imprese e settori industriali strategici sotto controllo dei lavoratori;
apertura dei libri contabili e abolizione del segreto commerciale;
riconversione della produzione nel quadro di un piano economico centralizzato al servizio
delle necessità più pressanti della popolazione relativamente all’alimentazione, alla sa-
nità, ai trasporti, all’energia, all’abitazione;
monopolio del commercio estero e controllo dei movimenti di capitale con la creazione di
un’unica banca nazionale posta sotto il controllo dei lavoratori;
riorganizzazione dell’economia riaprendo le imprese chiuse e espropriando le terre in
mano al latifondo affidandole alla gestione diretta di operai e contadini, ripartendo il la-
voro esistente tra tutti i lavoratori;
uscita dalla Nato e ritiro delle truppe impegnate in missioni all’estero;
e, quel che è più importante, organizzando la solidarietà e la lotta unita con i lavoratori e le
masse popolari del Sud e di tutta Europa. Perché senza distruggere tutti insieme l’Ue e costruire
al suo posto un’Europa socialista dei lavoratori e dei popoli nessun Paese da solo potrà salvarsi.
Si tratta, a ben vedere, di un sistema di rivendicazioni transitorie che però pone la questione del
potere, poiché non è nel quadro del capitalismo che i lavoratori troveranno la soluzione ai propri
problemi. E la questione del potere rimanda all’unificazione dell’Europa dei lavoratori.
La prospettiva degli Stati uniti socialisti d’Europa
Il tema dell’unificazione del continente europeo ha rappresentato un fertile terreno di discussione
da parte di rivoluzionari come Rosa Luxemburg, Lenin e Trotsky.
In un testo del 191124, Rosa Luxemburg ha spiegato molto approfonditamente che quella
dell’unione dei Paesi europei (nel senso che ad essa attribuiscono le borghesie continentali) co-
stituisce «un aborto imperialista», un’idea superata, sia in senso economico che politico. Ed è
così non solo perché «all’interno dell’Europa si verificano tra i diversi Stati lotte concorrenziali e
violenti antagonismi [che] continueranno a verificarsi fino a che quegli Stati esisteranno», ma
anche perché «l’Europa è solo un anello dell’intricata catena di relazioni e contraddizioni inter-
nazionali» e «non costituisce un’unità economica speciale nell’economia mondiale più di quanto
non la costituiscano l’Asia o l’America». Sicché, «ogni volta che i politicanti borghesi sbandierano
la parola d’ordine dell’europeismo, dell’unione degli Stati europei, […] dobbiamo rispondere che
non ne verrebbero a noi i vantaggi, ma alla borghesia»25.
Nel 1915 Lenin, dal canto suo26, ha specificato che «gli Stati uniti d’Europa in regime capitalistico
sarebbero o impossibili o reazionari. […] In regime capitalistico, gli Stati uniti d’Europa equival-
gono ad un accordo per la spartizione delle colonie. […] [Un] accordo fra i capitalisti europei […]
soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa per conservare, tutti insieme,
le colonie usurpate»27.
È necessario, tuttavia, precisare che il profondo ripudio dei rivoluzionari per la caricatura di unità
europea sotto l’imperialismo non sfocia affatto nella difesa della “patria” nazionale. Seguendo gli
insegnamenti di Rosa Luxemburg, Lenin e Trotsky, deve perciò essere rivendicata la nascita degli
Stati uniti socialisti d’Europa. L’intransigente difesa della rottura con l’Ue e dell’uscita dall’euro
non deve confondersi minimamente con la difesa dello Stato nazionale: solo il proletariato può
24
“Utopías pacifistas”, Obras escogidas, Editorial Antídoto, pp. 151-152.
25
Traduzione nostra. Sulla sezione italiana del Marxists Internet Archive si può trovare una brutta traduzione dall’inglese
del testo di Rosa Luxemburg (http://tinyurl.com/jm58uon).
26
V.I. Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati uniti d’Europa, Opere, Edizioni Lotta comunista, vol. 21, pp. 312-313.
27
In una nota della redazione del Sotsial-Demokrat sempre del 1915, anch’essa intitolata “Sulla parola d’ordine degli
Stati uniti d’Europa” (e sempre pubblicata in V.I. Lenin, op. cit., p. 315), è ancor meglio chiarito che «la parola d’ordine
degli “Stati uniti d’Europa” è errata sul piano economico. O è una rivendicazione irrealizzabile in regime capitalistico,
poiché presuppone uno sviluppo armonico dell’economia mondiale mentre le colonie, le sfere d’influenza, ecc. sono divise
fra diversi paesi. O è una parola d’ordine reazionaria, che significa un’alleanza temporanea delle grandi potenze d’Europa
per una più efficace oppressione delle colonie e per la rapina del Giappone e dell’America, che si sviluppano più rapida-
mente». Quali doti di analisi e di preveggenza – sia pure con i dovuti aggiustamenti – oltre un secolo prima della realtà
che stiamo oggi commentando!
davvero unificare l’Europa nell’unione libera e volontaria degli Stati socialisti d’Europa.
E nel 1923 fu proprio Trotsky, a porre più di altri, con chiarezza, efficacia e forza questo pro-
blema, affinando e mettendo a fuoco con grande precisione la questione dell’unificazione dell’Eu-
ropa. Non quella dei banchieri che conosciamo oggi, ma quella socialista dei lavoratori e dei
popoli: «… Oggi, per l’Europa, si tratta di uscire dal vicolo cieco. Bisogna indicare una via d’uscita
agli operai e ai contadini dell’Europa dilaniata e rovinata … Da questo punto di vista, la parola
d’ordine degli ‘Stati Uniti d’Europa’ si colloca sullo stesso piano storico di quella del ‘governo
operaio-contadino’: è una parola d’ordine transitoria, che indica uno sbocco, una prospettiva di
salvezza e, di conseguenza, è in grado di spingere le masse lavoratrici sulla strada della rivolu-
zione … Più le masse riprenderanno rapidamente fiducia nelle proprie forze e si raggrupperanno
strettamente sotto la parola d’ordine delle repubbliche operaie e contadine d’Europa, più rapi-
damente si realizzerà lo sviluppo della rivoluzione in Europa … Gli ‘Stati Uniti d’Europa’ sono una
parola d’ordine che, da tutti i punti di vista, corrisponde a quella di ‘governo operaio’ … Senza
questa parola d’ordine … i problemi fondamentali dell’Europa resteranno in sospeso … Agli operai
… che non sono comunisti, agli operai in generale e, in primo luogo, agli operai socialdemocratici
che temono le conseguenze economiche della lotta per il governo operaio; agli operai … di tutta
Europa, timorosi che l’instaurazione del regime operaio porti all’isolamento e alla decadenza
economica dei loro Paesi, diciamo: un’Europa, anche se temporaneamente isolata …, non solo si
manterrà, ma si solleverà e si rafforzerà … Gli ‘Stati Uniti d’Europa’ sono una prospettiva pura-
mente rivoluzionaria, la prossima tappa della nostra prospettiva rivoluzionaria generale … una
grande tappa storica, la prima di quelle che dobbiamo superare» 28.
In or out? Remain or leave? La supposta equivalenza delle due posizioni
E dunque, è questa la prospettiva cui dobbiamo tendere: quella della rottura della falsa unifica-
zione dei Paesi europei che va a tutto a vantaggio delle borghesie continentali e in danno invece
dei lavoratori; in ultima analisi, quella del rovesciamento dell’infernale macchina da guerra, dal
nome di Unione europea, che sta schiacciando le masse popolari del continente, come primo
passo sulla strada dell’edificazione di una vera Europa dei lavoratori e dei popoli, cioè degli Stati
uniti socialisti d’Europa.
Si tratta, però, di una prospettiva che allo stato è ancora tutta da costruire a partire dall’unifica-
zione ed estensione delle lotte nei diversi Paesi d’Europa, facendo crescere il livello di coscienza
delle classi lavoratrici, guadagnandone la maggioranza alla comprensione che solo attraverso la
rottura e il rovesciamento di quella macchina da guerra il destino delle masse popolari europee
potrà cambiare, scongiurando così il futuro di precarietà, disoccupazione, miseria e assenza di
diritti che le borghesie di tutta Europa stanno preparando e mettendo in atto.
E allora ritorniamo al punto dal quale eravamo partiti: cioè il referendum che nel prossimo mese
di giugno dovrà sancire l’approvazione dell’accordo raggiunto il 19 febbraio scorso dal Regno
unito con i partner europei29 (evitando così la Brexit), oppure la sua bocciatura, aprendo così la
strada all’uscita dallo spazio comune.
In realtà, è stato proprio per allontanare questo pericolo che gli altri Paesi dell’Ue hanno fatto
alla Gran Bretagna diverse concessioni, riconoscendole giuridicamente uno status speciale che
non la obbliga a far parte di un esercito europeo, né ad aprire i propri confini ai flussi migratori,
né a partecipare a operazioni di salvataggio finanziario o alla moneta comune, e che le garantisce
un certo grado di autonomia per banche, assicurazioni e istituzioni finanziarie della City. Ma che,
soprattutto, le lascerà la libertà di derogare alle norme comunitarie per quel che riguarda il
welfare in favore dei cittadini europei che lavorano nel Regno unito, discriminandoli rispetto a
quelli britannici.
Ora, se è vero che Cameron e i settori della borghesia britannica che a lui guardano considerano
quest’accordo una vittoria30, è altrettanto vero che la parte più reazionaria di quella stessa bor-
ghesia, quella più gelosa della totale indipendenza del Regno unito, lo ritiene invece insufficiente
e sostiene le ragioni del no. Ed è questo il quadro in cui si consuma lo scontro fra queste due
istanze: un quadro alla cui base v’è il progetto cosciente della direzione del Partito conservatore
di placare in questo modo la destra xenofoba tory “pescando” al tempo stesso consensi in fette
dell’elettorato dell’Ukip in vista delle future elezioni.
E dunque, da questo punto di vista, è incontestabile che nelle urne si confronteranno due diverse
28
L. Trotsky, “Sull’opportunità della parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa”, in Europa e America, Celuc Libri, Milano,
1980, pp. 101 e ss.
29
European Council conclusions, 18-19 February 2016 (http://tinyurl.com/h52jqd3).
30
«Ora potrò raccomandare di votare sì al referendum», ha dichiarato tutto trionfante Cameron dopo l’intesa
(http://tinyurl.com/zym5nr3).
visioni della borghesia britannica.
Ma è lecito per dei rivoluzionari, soprattutto sulla base dell’analisi sulla natura e la realtà dell’Ue
come quella che abbiamo cercato di sviluppare nei precedenti paragrafi, affermare la sostanziale
equivalenza tra i due possibili risultati argomentando che si tratta in fondo di «un dibattito tra
padroni» – come sostengono l’Isl e la Lit-Quarta Internazionale, fedelmente accompagnate dal
Pdac – e invitando perciò i lavoratori inglesi a “boicottare” il referendum31?
Diciamo subito di passata che questa posizione è sbagliata, innanzitutto perché nasconde, al di
là delle stesse intenzioni dei suoi proponenti, un profondo anti-internazionalismo, dal momento
che vanifica il principio della solidarietà internazionale tra lavoratori. Dichiararsi disinteressati a
quella che viene considerata di fatto una disputa interborghese significa infatti dare un oggettivo
appoggio all’accordo concluso da Cameron lo scorso 19 febbraio e alle misure di vera e propria
discriminazione verso i lavoratori non britannici nel Regno unito; significa anche dare un ogget-
tivo appoggio al progetto di chiusura delle frontiere inglesi ai flussi migratori che quell’accordo
prevede.
Crediamo che questa sola osservazione dovrebbe essere più che sufficiente perché venga rivista
la posizione che qui stiamo criticando. Ma non è solo questo il punto!
Il punto è che l’analisi contro cui polemizziamo è totalmente impressionista. I compagni che la
sostengono dovrebbero infatti spiegarci perché il gotha del capitalismo mondiale abbia lanciato
una campagna mediatica in favore del sì al referendum utilizzando argomenti allarmistici e ad-
dirittura terroristici, con cui cerca di spaventare l’opinione pubblica preconizzando catastrofiche
conseguenze per l’economia inglese32, avvalendosi persino dell’autorità del presidente Usa,
Obama, precipitatosi in Gran Bretagna per fare apertamente campagna elettorale in favore del
sì con la minaccia di rivedere la speciale relazione che lega da sempre i due Paesi anglofoni 33.
Non è forse questa la controprova di quanto sia profonda la crisi politica di quell’integrazione-fan-
toccio cui si è dato il nome di “Unione europea”? Fare la faccia feroce per scongiurare la Brexit
non è forse un modo per allontanare il più possibile l’idea stessa che essa potrebbe configurare
– oltre che «uno shock per l’economia mondiale»34 – quella che i capitalisti più avveduti hanno
definito «l’inizio della fine dell’Unione europea» 35?
E allora, se un’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Ue potrebbe rappresentare «il peggior
momento di disintegrazione dell’Europa dagli anni Trenta»36 (tanto che, in caso di Brexit, la
prima nazione a chiedere di uscire a sua volta dallo spazio comune sarà la Svezia, come rivelano
gli ultimi sondaggi svolti nel Paese scandinavo), perché non favorire questo possibile processo
partecipando alla campagna elettorale ed esprimendo un chiaro no, argomentandolo però da un
versante di classe?
Sia chiaro: l’Unione europea – così come il capitalismo – non morirà di morte naturale. Dovrà
essere un evento esterno a favorire questo processo, approfittando della profonda crisi in cui
essa si dibatte. Ma se i lavoratori non sfrutteranno ogni occasione favorevole resteranno essi
stessi schiacciati dalle convulsioni in cui le borghesie europee si dibattono per cercare di salvare
la propria “creatura” e se stesse.
Si dirà: «ma non possiamo mischiarci con la destra razzista dell’Ukip! Il nostro no sarebbe una
voce inconfondibile nella grancassa mediatica della campagna xenofoba dei reazionari». E allora
domandiamo: «invece, la vostra attuale posizione, di sostanziale disinteresse, gode forse di un
rilievo privilegiato nella coscienza dei lavoratori? Viene percepita come opinione autonoma? E
soprattutto: è in grado di far avanzare nelle masse il livello di consapevolezza sulla necessità di
distruggere questa macchina da guerra che è l’Ue?».
La nostra risposta alle domande che poniamo ai sostenitori di questa tesi è chiaramente negativa.
E lo è anche alla luce di un’ulteriore domanda che vorremmo porre loro: «ma davvero pensate
che quello da voi proposto nel testo contro cui stiamo polemizzando sia un “boicottaggio”?».
31
Sul significato di “boicottaggio” ci soffermeremo più oltre nel prosieguo di questo testo.
32
Emma Marcegaglia, ex presidente di Confindustria e attuale presidente di BusinessEurope, l’associazione degli
industriali europei, ha dichiarato: «Brexit è uno scenario disastroso, per il Regno Unito, per l'Europa, per l'economia
globale» (http://tinyurl.com/hqg429p). Sulla stessa lunghezza d’onda si collocano, tra gli altri, il Fondo monetario
internazionale (http://tinyurl.com/hdhkp7w), il Tesoro britannico (http://tinyurl.com/hr57szt), la banca svizzera Ubs
(http://tinyurl.com/jatgsxt) e quelle americane JP Morgan (http://tinyurl.com/zvemvye) e Bank of America
(http://tinyurl.com/gvmehhe), oltre alla più grande società d’investimento al mondo, la BlackRock
(http://tinyurl.com/hrv6ct9).
33
“Obama in campo contro Brexit: «Londra in fondo alla coda se esce»” (http://tinyurl.com/jkpzd6u).
34
Così, testualmente, il comunicato finale del G-20 dei ministri dell’Economia e dei governatori delle banche centrali
riunitisi il 15 aprile scorso a Washington (http://tinyurl.com/j7z8q8d).
35
“Nouriel Roubini: «Brexit could be 'the beginning of the end' for the European union»” (http://tinyurl.com/z8orvda).
36
Così Denis MacShane, ex ministro del Regno unito e autore del libro Brexit: how Britain will leave Europe.
La nostra risposta, invece, è che la posizione esposta sia di mero astensionismo e non di invito
al boicottaggio.
Sulla questione del boicottaggio
Quando i bolscevichi presero la decisione di boicottare le elezioni alla Duma, Lenin spiegò in un
testo del gennaio 1906: «I bolscevichi e i menscevichi sono concordi nel ritenere che l’attuale
Duma è una pietosa contraffazione della rappresentanza popolare, che si deve combattere contro
quest’inganno, prepararsi all’insurrezione armata per ottenere la convocazione di un’Assemblea
costituente […]. La discussione verte soltanto sulla nostra tattica nei confronti della Duma. I
menscevichi dicono: il nostro partito deve partecipare alle elezioni […]. E i bolscevichi dicono:
boicottaggio attivo della Duma. […]. Che significa boicottaggio attivo della Duma? […]. Boicottare
attivamente non significa soltanto astenersi dalle elezioni, ma giovarsi ampiamente delle riunioni
elettorali ai fini dell’agitazione e dell’organizzazione socialdemocratica. Utilizzare le riunioni si-
gnifica penetrarvi legalmente […] e illegalmente, esporvi tutto il programma e tutte le opinioni
dei socialisti, dimostrare che si tratta di una Duma falsa e contraffatta, incitare alla lotta per
l’Assemblea costituente. […]. Abbasso la Duma! Abbasso il nuovo inganno poliziesco! Cittadini,
onorate la memoria dei nostri eroi caduti a Mosca, preparandovi di nuovo all’insurrezione armata!
Evviva l’Assemblea costituente liberamente eletta da tutto il popolo! È questa la nostra parola
d’ordine. Ad essa corrisponde soltanto la tattica del boicottaggio attivo» 37.
Se questi sono i criteri per porre in essere il boicottaggio di una consultazione elettorale, certa-
mente i compagni dell’Isl e della Lit-Quarta Internazionale non stanno concretando una tale
tattica. Dal testo che stiamo criticando si evince solo che essi si asterranno dal voto, di fatto
disinteressandosi del referendum: ciò risulta chiaro dallo stesso titolo («Quello sulla Brexit è un
dibattito tra padroni») e da alcuni passaggi («Il referendum di Cameron è una discussione su chi
è il padrone migliore nello schiacciare i lavoratori e massimizzare il profitto e la ricchezza». «Non
c’è soluzione ai problemi della classe operaia, dei giovani e degli immigrati nel referendum dei
capitalisti. Gli interessi dei lavoratori … non si decidono in questo referendum». «La Gran Breta-
gna è una nazione che opprime e non possiamo appoggiare gli oppressori della nostra parte né
quelli dell'altra parte in questo referendum»).
Ma proprio perché il boicottaggio rappresenta soltanto una tattica, in un altro momento storico
(giugno 1907), Lenin, contro i socialisti rivoluzionari che proponevano il boicottaggio della terza
Duma, scrisse un testo che invitava a respingere questa proposta 38: «Le condizioni che rendono
applicabile il boicottaggio devono … essere cercate nella situazione oggettiva di un determinato
momento. […]. Il boicottaggio … può avere oggi un qualche senso solo come boicottaggio attivo.
Ciò significa non un passivo sottrarsi alla partecipazione alle elezioni, ma ignorarle perché esiste
il compito di un attacco diretto. In questo senso il boicottaggio equivale inevitabilmente a un
appello all’offensiva più energica e decisiva. Esiste in questo momento la vasta e generale ascesa
senza di cui un simile appello è privo di senso? Certamente no. […]. Quando la lotta è in corso,
si estende, cresce, irrompe da tutte le parti, allora una simile “proclamazione” [qui si intende la
proclamazione del boicottaggio: Nda] è legittima e necessaria, allora lanciare il grido di battaglia
è un dovere per il proletariato rivoluzionario. Ma col solo grido di battaglia non si può inventare
questa lotta, né suscitarla. E quando tutta una seria di appelli alla lotta … sono risultati inutili,
dobbiamo naturalmente cercare seri moventi per la “proclamazione” di una parola d’ordine che
è priva di senso se non vi sono le condizioni per attuare gli appelli alla lotta. […]. Riassumiamo.
La parola d’ordine del boicottaggio nacque in un periodo storico particolare. Nel 1905 e all’inizio
del 1906 la situazione oggettiva sottopose alla decisione delle forze sociali in lotta la questione
della scelta della via immediata da seguire: la via rivoluzionaria diretta o la svolta costituzionale
monarchica. Contenuto dell’agitazione boicottistica era inoltre principalmente la lotta contro le
illusioni costituzionali. Condizione del successo del boicottaggio era la vasta, generale, rapida e
vigorosa ascesa rivoluzionaria».
E allora, se – come non dubitiamo – l’analisi di Lenin è ancor oggi valida, è fondamentalmente
sbagliato “defilarsi” dal referendum del 23 giugno, così come “boicottarlo”39. È necessario invece,
se si vuole essere coerenti con l’analisi sulla natura dell’Ue, partecipare alla consultazione invi-
tando i lavoratori e le masse popolari a votare no. Argomentare – sfruttando le possibilità che le
libertà concesse dall’ordinamento borghese offrono – che il no dei rivoluzionari è diverso da
quello dei capitalisti; che è un no che serve a rompere quell’Unione europea che sta schiacciando
37
V.I. Lenin, Bisogna boicottare la Duma di Stato? Piattaforma della “maggioranza”, Opere, vol. 10, pp. 85 e ss.
38
Un testo significativamente intitolato Contro il boicottaggio, V.I. Lenin, Opere, vol. 13, pp. 9 e ss.
39
E abbiamo appena visto che l’atteggiamento propugnato dal testo in esame è tutto fuorché un boicottaggio.
il proletariato e a spezzare la sua macchina repressiva. Chiamare i lavoratori degli altri Paesi
europei a dare la loro solidarietà ai lavoratori britannici e il loro sostegno attivo alla campagna
per il no. In tal modo, far crescere la consapevolezza della necessità di lottare contro l’Ue.
E tutto questo anche se la voce di chi vuole il no da un versante di classe è flebile rispetto al
fragore della macchina mediatica dei reazionari: sarà comunque una voce che verrà ascoltata di
più rispetto a quella che invita a disinteressarsi del referendum sulla base di un’analisi fonda-
mentalmente sbagliata.
Ma c’è una ragione in più perché i rivoluzionari prendano attivamente parte alla campagna elet-
torale in favore del no.
Siamo d’accordo con i compagni dell’Isl che sul terreno referendario si sta consumando una
frattura tra due settori della borghesia. Conveniamo sul fatto che essi «non sono d’accordo su
quale sia il modo migliore per soddisfare la loro avidità».
Ma se le cose stanno così, se è presente una contraddizione all’interno del campo padronale
britannico, e se questa contraddizione riverbera i suoi effetti sul capitale europeo, ciò vuol dire
che potenzialmente tale contrasto è il chiaro sintomo di una debolezza della borghesia continen-
tale, indice a sua volta di una forte crisi politica dello stesso progetto dell’integrazione capitali-
stica europea che si sta dipanando nel quadro della terribile crisi economica del 2007-2008 an-
cora in atto.
Ora, occorre considerare che il momento della crisi è quello di maggiore vulnerabilità del capita-
lismo, dal momento che, per uscirne, la borghesia ha come unica ricetta un aumento dello sfrut-
tamento del proletariato: e ciò può aumentare l’intensità della lotta di classe. Ma se ciò non
accade e il capitale riesce a scaricare i costi della crisi sulle classi subalterne, il sistema guadagna
tempo per ristrutturarsi. Occorre anche considerare che, poiché la crisi si sviluppa internazional-
mente, cresce pure il livello delle dispute intercapitalistiche.
Nel crogiolo dell’odierna situazione europea tutte queste tendenze determinate dalla crisi eco-
nomica, contraddittorie tra sé, si stanno sempre più esacerbando riflettendosi su una grave crisi
politica, di cui è impensabile per i rivoluzionari non approfittare. Qui non si tratta di stare nel
campo di una delle forze borghesi in disputa, ma di utilizzare le contraddizioni esistenti contri-
buendo ad acuirle.
Del resto, Lenin lo aveva acutamente scritto: «Condurre la guerra per rovesciare la borghesia
internazionale, guerra cento volte più difficile, lunga e intricata della più accanita delle guerre
abituali tra gli Stati, e rinunciare in anticipo a manovrare, a sfruttare i contrasti (pur temporanei)
tra i nemici, …, non è cosa infinitamente ridicola? Non è come se nell’ardua scalata d’un monte
ancora inesplorato e inaccessibile si rinunciasse in partenza a fare qualche zigzag, a ritornare
talvolta sui propri passi, a lasciare la direzione presa all’inizio per tentare altre direzioni? […]. Si
può vincere un nemico più potente soltanto con la massima tensione delle forze e all’immancabile
condizione di utilizzare nel modo più diligente, accurato, cauto e abile ogni benché minima “in-
crinatura” tra i nemici, ogni contrasto di interessi tra la borghesia dei diversi Paesi, tra i vari
gruppi e le varie specie di borghesia all’interno di ogni singolo Paese, […]. Chi non ha capito
questo non ha capito un’acca né del marxismo né del moderno socialismo scientifico in generale.
Chi non ha dimostrato nella pratica, per un periodo di tempo abbastanza lungo e in situazioni
politiche abbastanza diverse, di saper applicare in concreto questa verità non ha ancora imparato
ad aiutare la classe rivoluzionaria nella sua lotta di emancipazione di tutta l’umanità lavoratrice
dagli sfruttatori»40.
Crediamo che se l’Isl e la Lit-Quarta Internazionale sapranno correggere la loro erronea posi-
zione, il proletariato britannico non potrà che trarne vantaggio.
(20 maggio 2016)
40
V.I. Lenin, L’«estremismo» malattia infantile del comunismo, Opere, vol. 31, pp. 59-60.