Milano, 10 agosto 2016 - 17:48

Il costo reale dei derivati
per la nostra finanza pubblica

Nel 2015 le perdite effettive hanno superato di 1,35 miliardi di euro la riduzione delle perdite potenziali, cioè del valore di mercato di questi contratti

Un disegno di Conc Un disegno di Conc
shadow

Per il Ministero dell’Economia scrivere il Rapporto sull’andamento del Debito Pubblico non deve essere facile. Ci sono voluti 11 mesi per quello relativo al 2014, sul 2015 han fatto un po’ prima: era atteso per la primavera ma finalmente, a fine Luglio, è uscito.

Anche in questa edizione non mancano interessanti novità sul portafoglio derivati dello Stato: il valore nominale complessivo è sceso di 8,7 miliardi, passando dai 159,6 miliardi del 31 dicembre 2014 ai 150,9 di fine 2015. Ma il dato senza dubbio più rilevante riguarda il valore di mercato (mark to market) dei derivati, passato dai -42,06 miliardi di fine 2014 ai -36,65 miliardi del dicembre 2015. Questo significa che nel 2015 la perdita potenziale dello Stato si è ridotta di circa 5,4 miliardi.

Niente male. Ma solo a prima vista, dato che la discesa del valore è stata più che compensata dal costo effettivo che i derivati hanno generato per le finanze pubbliche proprio nel 2015. A dircelo sono i dati pubblicati dall’Istat lo scorso 21 aprile da cui risulta che nel 2015, tra flussi netti per interessi e passività nette in derivati, questi contratti sono costati allo Stato ben 6,75 miliardi. Quindi facendo una semplice sottrazione (6,75-5,4) si scopre che nel 2015 le perdite effettive hanno superato di 1,35 miliardi di euro la riduzione delle perdite potenziali, cioè del valore di mercato di questi contratti. Sul punto il Ministero tace e commenta così il persistente segno negativo del mark to market: «Il valore negativo, nell’attuale fase di mercato, è l’inevitabile conseguenza della funzione assicurativa svolta da questi strumenti». Una sola domanda sorge spontanea: ma da quanto dura l’«attuale fase di mercato» visto che per lo Stato italiano il valore di mercato dei derivati è negativo da ben 10 anni?

Quanto all’asserita «funzione assicurativa» dei derivati, la posizione del Ministero appare quanto meno discutibile tenuto conto che — come si legge nel Rapporto — nel corso del 2015 il Tesoro ha subìto dalle banche-controparti l’esercizio di swaption «per un nozionale complessivo di 10.834 milioni di euro, che hanno generato un debito contabile di 3.644». Proviamo a tradurre: la swaption è una specie di assicurazione che viene acquistata per proteggersi, oltre una certa soglia, dal rialzo dei tassi di interesse su un finanziamento. Quando il Tesoro subisce «l’esercizio di una swaption» vuol dire che l’ha venduta (come confermano tutti i docenti di finanza). Ma se serviva a protezione, perché il Tesoro l’ha venduta? Per fare cassa. Infatti se vendo una swaption incasso un premio, ma l’assicurazione passa nelle mani di qualcun altro (la banca), e quindi se l’evento assicurato si verifica (cioè se i tassi si muovono a mio sfavore) dovrò sborsare dei bei soldi. Ed è proprio quello che è successo nel 2015, che ha comportato per il Tesoro un maggior debito per oltre 3,6 miliardi. Ma la stessa cosa era capitata anche nel 2014, dato che nel Rapporto sul Debito di quell’anno si trova traccia di un’operatività analoga.

Sempre in tema di swaption, il Ministero rende noto di essere intervenuto «efficacemente» con la ristrutturazione di un contratto da 3,5 miliardi in scadenza a febbraio 2015: l’esercizio di questa swaption avrebbe determinato l’ingresso in uno swap fortemente svantaggioso per lo Stato, che avrebbe dovuto pagare — si legge — un tasso fisso del 3,53% in cambio dell’Euribor a 6 mesi, ossia in cambio di nulla dato che l’Euribor è saldamente sotto lo zero! Per effetto della rimodulazione descritta nel Rapporto, la scadenza della swaption è stata rinviata al febbraio 2017, il che — sulla base delle nuove regole europee di contabilità — ha permesso di evitare un ulteriore incremento del debito del 2015 per 960 milioni di euro.

Peccato che il problema non sia stato risolto ma solo rinviato e con tutta probabilità anche peggiorato. Infatti, la rimodulazione negoziata dal Ministero con la banca-controparte ha anche allungato di 5 anni la durata dello swap di tasso in cui lo Stato potrebbe essere costretto a entrare nel febbraio 2017. Facendo due conti: senza metterci mano ci sarebbe costato il 3,53% annuo per dieci anni (dal 2015 al 2025), ora invece ci costerà un po’ di meno (il 3,2%) ma durerà 15 anni (dal 2017 al 2032). Quindi, se la banca eserciterà l’opzione (ed è ragionevole che lo faccia), a partire dal 2017 lo Stato entrerà in una posizione sistematicamente in perdita, dato che pagheremo la banca per non avere nulla in cambio. Secondo stime di uno studio di analisti indipendenti (Ifa Consulting), per effetto della rimodulazione il valore di mercato di questo derivato è peggiorato di diverse decine di milioni di euro.

Domanda: nel vocabolario del Mef «intervenire efficacemente» vuol dire «rifilare il problema a chi viene dopo»?

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT