martedì, marzo 15, 2005
Stati Uniti d'America - 14.3.2005
Ambasciatore porta pena
I dubbi sul passato di Mel Sembler, massimo rappresentante diplomatico Usa a Roma
Prima che il tragico epilogo del sequestro di Giuliana Sgrena lo vedesse citato più volte nelle cronache americane per la sua attività di mediazione tra Roma e Washington, il nome di Mel Sembler, ambasciatore statunitense in Italia, diceva poco alla grande maggioranza dei suoi compatrioti. Buona parte di quelli che lo conoscevano, però, sognava da tempo di vedere il diplomatico e la moglie Betty dietro le sbarre. Perché la coppia ha fondato e poi gestito per diciassette anni Straight, una rete di comunità per il recupero di tossicodipendenti, i cui metodi spartani sono stati oggetto di numerose denunce di maltrattamenti da parte di ex pazienti.
Arricchitosi con la costruzione di centri commerciali negli Stati Uniti, il 75enne ex ambasciatore in Australia e a Nauru negli ultimi anni si era dedicato a raccogliere fondi per il partito repubblicano. Mentre la moglie ha avuto un ruolo importante nella macchina elettorale al servizio del governatore della Florida nonché fratello del presidente, Jeb Bush, si può dire che da solo Sembler ha messo insieme decine di milioni di dollari per le due elezioni di George W.: uno sforzo che nel 2001 gli valse la nomina a massimo rappresentante diplomatico di Washington in Italia.
Sulla biografia ufficiale dell’ambasciatore, la lunga esperienza di Straight è descritta come un grande successo. “Ha guarito 12mila giovani grazie al suo lodevole programma contro la droga”, si legge sul sito del dipartimento di Stato. Ma Wes Fager, un programmatore informatico che nel 1989 affidò il figlio quindicenne al centro Straight in Virginia, non potrebbe essere meno d’accordo. “Circa 50mila ragazzi sono passati per quelle comunità. Molti di questi hanno ancora oggi problemi mentali, e più di 40 si sono suicidati. Sì, anche tra quei 12mila che Sembler definisce ‘guariti’ dalla dipendenza: si sono liberati della droga, ma sono morti!”. Fager ha fatto della ricerca della verità su Straight la sua missione, creando il sito TheStraights. Dopo cinque mesi passati in comunità, il figlio Bill non è tornato più quello di prima. “Aveva continui esaurimenti nervosi, uno dei terapisti mi disse: ‘Forse suo figlio avrebbe avuto comunque dei problemi, ma di sicuro Straight li ha fatti esplodere’.
Ispirandosi alle culture new age allora in voga, e in particolare alle tecniche di controllo del pensiero di derivazione cinese, la filosofia di Straight era semplice: per guarire un tossicodipendente, bisogna svuotarlo della sua personalità e crearne una nuova. Durante la loro permanenza in comunità, ai ragazzi era vietato vedere i genitori, e abbandonare il centro di propria volontà era impossibile. “Nessuno poteva uscire finché non ‘confessava’ i suoi problemi come voleva Straight – racconta Fager –. Per questo la ‘cura’ durava sempre più di quanto ti dicevano all’inizio. E i costi aumentavano: oltre ai 12mila dollari l’anno, che è quanto all’epoca avevano chiesto a me, domandavano in continuazione altro denaro. Eppure non avevano spese: non c’erano dottori, le comunità erano praticamente dei magazzini vuoti, i ragazzi dormivano e mangiavano in casa di altre famiglie a spese di queste”.
Secondo le decine di testimonianze rese davanti ai giudici, nelle comunità fondate da Sembler i pazienti venivano picchiati e privati del cibo e del sonno, erano costretti a sedere per giorni nella stessa posizione in mezzo alle loro stesse feci e urine, nel vomito e per le ragazze anche nel sangue mestruale; ricevevano sputi in faccia, dovevano raccontare a tutti i particolari più umilianti delle loro esperienze sessuali. A commettere gli abusi erano gli stessi compagni di comunità, incoraggiati dai superiori. “Straight fa qualcosa di molto vicino all’omicidio psichico”, disse Marge Robertson, l’allora direttrice della sezione locale dell’American Civil Liberties Union, parlando della comunità di Cincinnati. “Stiamo parlando degli stessi abusi e torture che hanno provocato lo scandalo di Abu Ghraib – sostiene Fager –. Nei centri Straight quei comportamenti erano la norma”.
Alcune denunce di maltrattamenti portarono a delle condanne, con risarcimenti cospicui. E una dopo l’altra, l’ultima nel 1993, le comunità di Straight chiusero. Alcuni di quelli che le gestivano fondarono nuovi centri di recupero con altri nomi, ma con filosofia simile. Era comunque la fine del più grande programma riabilitativo mai creato negli Stati Uniti, con un giro d’affari totale di quasi 100 milioni di dollari. E per quanto fosse una fine senza gloria, Sembler – già nominato ambasciatore da Bush padre – ne uscì praticamente indenne. I centri commerciali della Mel Sembler Company – l’altra grande attività imprenditoriale del diplomatico – continuarono a spuntare in diverse aree degli Usa, specialmente in Florida. In uno di questi, a St. Petersburg, la compagnia di Sembler si attirò le accuse di razzismo da parte della comunità afro-americana locale, per il modo in cui le guardie di sicurezza prendevano di mira i giovani neri e per il fatto che, su 450 addetti, solo uno era afro-americano.
Ma in sostanza le traversie di Sembler sono note solo a quelli che hanno avuto a che fare con le sue comunità e i suoi centri commerciali. Al grande pubblico statunitense, oltre alla sua chiamata in causa nell’affaire Calipari, di lui arriva poco. E’ solo uno dei tanti ambasciatori Usa nel mondo, ma nelle ultime settimane ha stabilito un record che è stato raccontato anche in un articolo del Washington Post: ha comprato per conto dell’ambasciata uno stupendo edificio romano per ampliare gli uffici della sede diplomatica. E l’ha battezzato in onore di se stesso: il Mel Sembler Building. Per la prima volta nella storia statunitense, un palazzo è stato dedicato a un ambasciatore ancora in servizio.
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