IL CLAMOROSO DIBATTIMENTO INAUGURO' IL TRIBUNALE OGGI DA POCO RIAPERTO

QUEL PROCESSO A L’AQUILA SUL VAJONT, UN ALTRO FATTO CHE NON SUSSISTEVA

di Eleonora Marchini

26 Novembre 2015 21:21

L'Aquila - Cronaca

L’AQUILA – Un processo “colossale”. Un “avvenimento eccezionale per la storia del settore giudiziario”.

Così fu definito il procedimento che il 25 novembre 1968 prese il via all’Aquila, a distanza di 5 anni dalla catastrofe del Vajont e dopo 9 mesi dal rinvio a giudizio degli indagati da parte del giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri.

Il più clamoroso dei processi, che vide coinvolte migliaia di persone, tra imputati, testimoni, parti lese, familiari delle circa 2 mila vittime del disastro, periti, avvocati, e tecnici, inaugurò il moderno Palazzo di Giustizia in via XX Settembre, edificio che da poco è tornato a svolgere la sua funzione di Tribunale dopo la ristrutturazione post sisma del 6 aprile 2009, celebrato da un vernissage alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Una vicenda che a rileggerla, pur nelle differenze di specificità e di dimensioni, presenta molti punti di contatto con quella della commissione Grandi rischi, l’organo scientifico consultivo processato all’Aquila e assolto definitivamente in terzo grado dall’accusa di aver fornito false rassicurazioni e sottovalutato il rischio sismico prima della tragedia di 6 anni e mezzo fa.

La Suprema Corte di Cassazione scelse la sede aquilana accogliendo un’istanza di “legittima suspicione”, ritenendo, cioè, fondato il sospetto che l’imparzialità dei giudici competenti per territorio potesse venire meno.





Ufficialmente, comunque, la motivazione dello spostamento fu “per motivi di ordine pubblico”.

Gli imputati principali erano Alberico Biadene per la Sade, impresa costruttrice della diga; Dino Tonini, capo dell’ufficio studi della Sade; Roberto Marin, direttore generale dell’Enel-Sade; Pietro Frosini, ex presidente della quarta sezione del Consiglio superiore dei lavori pubblici; Luigi Greco, presidente del Consiglio superiore lavori pubblici; Francesco Sensidoni, ispettore generale del Genio civile, questi ultimi tre componenti della commissione di collaudo della diga; Curzio Batini quarta sezione del Consiglio superiore dei lavori pubblici; Augusto Ghetti direttore dell’istituto di Idraulica e di costruzioni idrauliche nell’Università di Padova; Almo Violin, capo genio civile di Belluno; Mario Pancini, capocantiere al Vajont.

Tutti chiamati a rispondere di disastro colposo aggravato per il verificarsi di frana e inondazione, omicidio colposo per le circa 2 mila vittime, con ulteriore aggravante della prevedibilità dell’evento.

Il processo si aprì, quel 25 novembre, con la tragica notizia del suicidio di uno degli imputati, Pancini, che si era tolto la vita a Venezia poche ore prima di partire per L’Aquila, sopraffatto dal peso forse delle colpe attribuite e delle conseguenze di quella che fu dichiarata come una “catastrofe da Genesi”.

Un’onda anomala, provocata dallo scivolamento nel bacino artificiale di una frana di vaste proporzioni staccatasi dal Monte Toc, scavalcò la diga e in 5 minuti esatti spazzò via 2 mila persone e i centri abitati di Longarone, Pirago-Rivalta, Villanova Faè.

Polverizzò, letteralmente, la normalità di una serata di ottobre, il 9 ottobre 1963, trascorsa nelle case, nei caffè, modificando e distruggendo in modo irrimediabile volto e anima di un territorio.





L’Aquila accolse, in quei giorni, un fiume di gente e si dimostrò impreparata dal punto di vista delle strutture ricettive, insufficienti ad ospitare tante persone, molte delle quali costrette ad alloggi di fortuna.

Il processo di primo grado si concluse il 17 dicembre del 1969: i 21 anni di reclusione chiesti dall’accusa si trasformarono in una sentenza di condanna a 6 anni, di cui due condonati, per i soli Biadene, Batini e Violin con le accuse di omicidio colposo, di non aver avvertito la popolazione e non predisposto l’evacuazione delle zone a rischio.

Assolti tutti gli altri. Non venne riconosciuta l’aggravante della prevedibilità del disastro, nonostante, nelle 116 tonnellate di documentazione, perizie, materiali analizzati, l’accusa avesse puntato il dito sull’impossibilità di non essere a conoscenza del disastro imminente.

La sentenza fu confermata poi in Appello, sempre all’Aquila, nel processo iniziato il 26 luglio del 1970 e concluso il 3 ottobre dello stesso anno. Batini vide stralciata la sua posizione per il grave esaurimento nervoso che lo aveva colpito.

Ulteriormente ridotta in Cassazione, poi, fu la condanna per i soli imputati Biadene e Sensidoni, riconosciuti colpevoli di inondazione aggravata dalla previsione dell’evento e degli omicidi colposi plurimi. Con 5 e 3 anni di reclusione, con tre anni di condono.

Un processo dai tempi biblici che vide la conclusione solo nel 1997, con la definitiva condanna al risarcimento dei danni morali e materiali, nei confronti delle vittime e dei comuni danneggiati, da parte di Montedison e di Enel per cifre che, secondo la rivalutazione monetaria, si attestarono intorno ai 22 miliardi di lire.

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