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L'INCHIESTA

Il metodo e le idee del fondatore
e del medico di Stamina

Parlano Davide Vannoni e Marino Andolina

L'INCHIESTA

Il metodo e le idee del fondatore
e del medico di Stamina

Parlano Davide Vannoni e Marino Andolina

Davide Vannoni e Marino AndolinaDavide Vannoni e Marino Andolina
Chi sono Davide Vannoni e Marino Andolina, i due protagonisti delle contestate cure con le staminali, una vicenda che sta riproponendo una spaccatura fra opinione pubblica e scienziati. Li incontriamo in un hotel di Brescia, a meno di un chilometro in linea d’aria dagli Spedali Civili, teatro dell’ultima battaglia sulle staminali, tra telefonate in continuazione di pazienti vecchi e nuovi (dal 2008 ne sono stati trattati 65 in Italia e qui a Brescia 36, ma a Stamina Foundation sono arrivate più di 10 mila richieste) e filmati del "prima-dopo" la cura mostrati su un tablet. Presidente di Stamina Foundation, professore (associato) di Psicologia della comunicazione a Udine, torinese di 44 anni, padre (separato) di due bambini di 5 e 10 anni, Vannoni è un cognitivista con il pallino delle neuroscienze.

Marino Andolina invece è un pediatra-immunologo di 67 anni, sposato e con tre figli, fino al 2011 direttore del Dipartimento trapianti dell’ospedale Burlo Garofalo, di Trieste. È anche un medico volontario in zone di guerra e disastri naturali. Ma soprattutto il suo curriculum racconta che è stato il primo pediatra italiano ad eseguire trapianti di midollo, nel 1984; per primo al mondo ha curato una malattia genetica (Niemann Pick B) con staminali da placenta, nel 1986; ha insegnato a fare i primi trapianti a Pavia, Genova, Samara, Belgrado e Baghdad; nei primi anni '90 ha iniziato a trattare leucodistrofie con cellule da sangue periferico per via lombare. In questi quasi cinque anni, la magistratura e tanti quanto meno scettici, come buona parte del mondo scientifico li hanno definiti in tanti modi: gente che specula sulla malattia e il dolore delle famiglie dei pazienti raggirandole, pifferai magici, venditori di illusioni, alchimisti. Per le famiglie degli ammalati, ovviamente, sono l’ultima speranza. Entrambi hanno provato le staminali mesenchimali su se stessi e, sostengono, con buoni risultati.

Vannoni, qual è l’accusa più pesante per lei?
«La truffa, perché non ho mai agito con quello spirito. Ho sempre pensato che la terapia funzionasse e non ho mai voluto illudere nessuno per guadagnarci o speculare. Ho visto una grande idea e ho voluto portarla in Italia. Mi ritengo più che altro un innovatore e ne pago il prezzo».

A dirla tutta, il prezzo lo hanno pagato anche i malati. Ci dica onestamente: c’è stato un momento, almeno all’inizio, in cui ha pensato di fare business con questa attività?
«Avevo una società di ricerche sociali a Torino, la Cognition, che faceva un buon profitto. Il modo migliore di guadagnare soldi, se avessi voluto veramente guadagnarne, e ne avrei guadagnati tanti con le staminali, non era di portarmi dei biologi russi a Torino e poi a San Marino. Il modo migliore sarebbe stato di lasciarli lì dove la legge permetteva loro di fare qualunque cosa volessero, visto che lavoravano anche all’interno dell’Università, mandare i pazienti dall’Italia, prendermi una quota di quello che loro spendevano, e avrei guadagnato senza fare una virgola di fatica. Avrei concluso con i biologi un contratto di esclusiva, perché di pazienti italiani non ne avevano, e ne avrei portati a migliaia».

Una richiesta economica ai pazienti però c’è stata. I depliant che giravano, riportavano i prezzi della cura. Perché?
«Se avessi potuto dare le cure gratuitamente fin da allora l’avrei fatto. Chiaramente adesso lo posso fare. Eravamo in emergenza continua. I finanziamenti deliberati dalla Regione Piemonte per il progetto di un laboratorio all’avanguardia non arrivavano e sei pazienti erano già in trattamento. E lì c’è stato, se vuole, il "peccato originale" di dire: abbiamo bisogno di sopravvivere. Alla fine da questa attività ho avuto grandi perdite, ma non perché ci ha bloccato Guariniello. Il motivo vero è che i pazienti trattati a 1.000 euro quando preparare le loro cellule ne costava 15 mila, quelli che non pagavano un euro e quelli che pagavano giusto il costo, erano più di quelli che pagavano le cifre che sono state scritte (fino a 50 mila euro secondo l’indagine della Procura di Torino, ndr). Con loro però compensavamo quelli che venivano curati gratis. I pazienti che potevano permetterselo donarono intorno ai 20 mila euro a testa».

Se la sentirebbe di parlare di guarigione per questi pazienti?
«Su alcune patologie sì. Ci sono patologie che non abbiamo mai trattato prima, come la SMA 1 sulla quale stiamo lavorando e vedo che i risultati sono importanti. In Celeste, per esempio, sono risultati che si mantengono perché in otto mesi di interruzione delle cure la bambina non ha perso nulla. Sono solo otto mesi e diciamo che è stata una fortuna. Per quello che ne sapevamo, Celeste poteva crollare e dopo due mesi morire di SMA 1. E invece ha mantenuto tutte le qualità muscolari recuperate. Non so se Celeste tra due anni riprenderà a degenerare, se non dovesse fare più staminali. Però preferirei scoprirlo non perché l’Aifa impedisce a Celeste di fare le cure, ma perché la bimba sta bene e quindi si interrompe il ciclo terapeutico».

Sono dati verificabili?
«Certo, i dati sono in ospedale. Basta leggere la lettera di dimissioni dell’Ospedale di Brescia dopo che la bimba ha fatto l’ultima iniezione: c’è una valutazione oggettiva del neurologo. Non sono impressioni dei genitori, nè tantomeno opinioni di Stamina».

Ha mai promesso una guarigione ai pazienti?
«No, anche perché i pazienti arrivavano da me dopo essere passati dai medici, da neurologi come Leonardo Scarzella di Torino. A me chiedevano: guarirò? E io rispondevo: mah non lo so, dipende, abbiamo ottenuto questi risultati. All’inizio si parlava di risultati ottenuti in Ucraina, sulla base dei documenti e delle pubblicazioni che ci avevano dato là. Quindi avvertivamo: in questa patologia non è detto. Abbiamo sempre cercato di fare le cose seriamente. Ovvio che poi il paziente lo si conforta, gli si dice: speriamo tanto che lei migliori, ci saranno dei miglioramenti. Ma è molto diverso dal garantire la guarigione. Non lo abbiamo fatto allora e non lo facciamo neanche adesso».

Gli unici dati pubblicati, quelli che riguardano i cinque pazienti del Burlo Garofalo, indicano che non ci sono stati risultati: dunque?
«I cinque pazienti sono stati curati con le cellule prodotte dalla cell factory dell’ospedale San Gerardo di Monza. Lo studio dice che non fanno male e mi fa molto piacere. Ma è un’altra metodica, con altri tipi di cellule. Tra 20-30 giorni l’ospedale di Brescia dovrebbe rendere noti i dati dei pazienti trattati finora. Porterò anche delle pubblicazioni internazionali su questa metodica a dimostrazione che anche in tanti altri casi del passato, oltre a esser stata fatta una fase preclinica, ci sono dei risultati e non ci sono state controindicazioni».

Parliamo degli studi portati avanti in Ucraina?
«Non solo. Li renderò noti tra poco a quelli che sono interessati. Perché la comunità scientifica probabilmente non lo è; se lo fosse, potrebbe benissimo fare una richiesta, attraverso il Ministero, per avere le cartelle cliniche, con i pazienti resi anonimi, e incominciare a esaminarle. Quelle ci sono, non è che ce le ha Stamina nascoste in un cassetto. Sono in un ospedale pubblico».

Gli esperti in Italia e all’estero però mettono in dubbio gli effetti e la sicurezza delle vostre cure.
«Allo stato attuale, all’ospedale di Brescia non è mai stato individuato un effetto collaterale e abbiamo pazienti in cura da un anno e mezzo ormai, che hanno finito i cinque cicli della terapia. I nostri sono pazienti sui quali, nel momento in cui interrompessimo le cure, non potremmo mai vedere gli effetti a lungo termine nonché valutare la sicurezza del trattamento, perché morirebbero molto prima del tempo necessario per farlo. Parliamo di persone che hanno davanti sei mesi, otto mesi di vita più o meno. Preferisco allora mantenerli in vita con la terapia, piuttosto che interrompere le cure e lasciarli morir per poter dire poi che non sono morti per colpa delle staminali. A proposito della sicurezza delle cellule poi, non stiamo lavorando in uno scantinato o sottobanco, ma nel secondo ospedale pubblico italiano per dimensioni. E non dimentichiamo che dentro quell’ospedale non lavoriamo di nascosto, ma secondo un decreto dello Stato italiano (Turco-Fazio del 2006, ndr). Il laboratorio poi, nonostante il blocco della produzione delle nostre cellule imposto da Aifa dopo l’ispezione del maggio scorso, peraltro impugnata dagli stessi Spedali Civili di Brescia e dalla Regione Lombardia, ha continuato a lavorare sulla base delle ordinanze dei giudici».

Dottor Andolina, è vero che portavate i pazienti di Stamina nel fine settimana al Burlo Garofalo di Trieste?
«In vita mia, i trapianti li ho sempre fatti lavorando anche 20 ore al giorno per tanti anni, tutti i giorni. Dormivo in ospedale. Quindi per me lavorare la domenica era assolutamente normale. Nel 2009, avevamo stipulato una convenzione di ricerca tra ospedale e Stamina Foundation. Ho cominciato a trattare con cellule Stamina alcuni pazienti di Vannoni, perché ritenevo fosse la naturale continuazione di una sperimentazione, finanziata tempo prima dal Ministero, per trapianti di midollo nelle malattie genetiche in cui si prevedeva la terapia intratecale (cioè con iniezioni nel rachide, come si fa per le staminali, ndr). Avevo anche ottenuto il nullaosta del Comitato etico dell’ospedale. Probabilmente ho sbagliato in qualcosa, anzi ho sbagliato di sicuro, ma sempre meno di quando "ho sbagliato" facendo i primi trapianti di midollo italiani in età pediatrica (eseguiti quando ancora non esisteva una legge sui trapianti, ndr)».

A Trieste ha agito di nascosto?
«Agli atti del pm Guariniello c’è una mail alla direzione sanitaria, in cui dicevo: sapete cosa sto facendo. Nella mail facevo presente anche il disagio dei pazienti, che facevano il prelievo di staminali a Torino, e il problema del trasporto del materiale biologico a Trieste. Scrivevo che gli anestesisti erano pronti a lavorare di domenica per fare loro i prelievi, in attività privata intramurale. Non mi hanno risposto. Le cellule invece le trattavo nel laboratorio del Centro trapianti: manipolavo io stesso le cellule perché sono un criobiologo. Per tutto quello che ho fatto a Trieste, per cui sono indagato, sono stato mandato due volte in Consiglio di disciplina dell’ospedale e ho vinto».

Sveliamo il segreto: in che cosa consiste il metodo Stamina?
«Ci sono una serie di punti. Il prelievo non è di midollo liquido, molto più ricco di cellule emopoietiche, ma una "carota" ossea, cioè una biopsia: quindi è stroma. I tempi di coltura: più brevi, 15-20 giorni, per evitare anche il teorico, modestissimo, rischio che le cellule si avvicinino alla maturazione in cartilagine-osso, che è la cosa che sanno fare meglio. La composizione del terreno di coltura viene adeguata in funzione di come si formano le colonie di cellule. Le cellule vengono "staccate" e congelate in vapori di azoto liquido. Altro punto importante è la differenziazione verso la linea neurale, dopo lo scongelamento delle cellule: una differenziazione brevissima, grazie alla quale iniettiamo cellule che hanno caratteristiche sia neurologiche che ancora staminali. Noi manteniamo la "staminalità" in cellule che sono indirizzate verso linee neurali, perché così passano la barriera ematoencefalica, mentre le cellule mature non passano. Vengono effettuate due infusioni a ciclo, una per via endovenosa di cellule staminali mesenchimali e la seconda per via intrarachide con cellule staminali differenziate in senso neuronale. Il trattamento prevede 5 cicli, a distanza di almeno 30 giorni uno dall’altro a seconda dello stato immunologico del paziente. E, infine, il know-how importante non è quello scritto, ma l’esperienza della persona che prepara le cellule».

Vannoni, davvero non c’è altro?
«È tutto scritto nelle domande di brevetto depositate negli Stati Uniti. Sul sito della rivista Nature (che ha pubblicato nei giorni scorsi un articolo molto critico sul caso Stamina, ndr) molti si scagliano contro di noi. Mi stupisco di tutta questa acredine verso qualcosa che tutto sommato non conoscono e che riguarda "cure compassionevoli". Perché vogliono fermare cure compassionevoli su persone moribonde? Lo fanno per il loro bene? Lo fanno per il bene della scienza? Lo fanno per interesse personale? Tra 20-30 giorni , come ho già detto, cominceranno a uscire i primi dati sui pazienti che hanno fatto la quinta infusione, completando il trattamento. Sono dati strumentali, oggettivi. Fossi in loro aspetterei almeno di vederli. «Inoltre, alla fine dell’articolo di Nature c’è il commento di un biologo italiano, che riporta i passaggi della preparazione ricavati dalle richieste di brevetto depositate in Usa e dice che sarebbe interessante provare il protocollo Stamina in tutti i laboratori che si occupano di mesenchimali. È una persona che apprezzo, perché ha almeno detto: vediamo se questa cosa funziona. Nel nostro protocollo ci sono anche "raffinatezze", ma un bravo biologo può riconoscerle. Non ci sono altre sostanze oltre quelle descritte nei brevetti: lì si parla di acido retinoico e di alcol, una delle chiavi terapeutiche più importanti della nostra metodica. È una grande innovazione, perché nessuno ha pensato di usare l’etanolo come sostanza per portare all’interno delle cellule sostanze di differenziazione. Si usa in genere il dimetilsulfoxido, che danneggia le cellule e ci mette settimane a passare all’interno. Noi differenziamo in un’ora».

Non temete che vi «rubino» l’idea e la sfruttino? «Chiunque troverà la chiave per fare dei neuroni a uso terapeutico con la nostra metodica, non potrà brevettarla. Questo grazie alla domande di brevetto depositate, e non ancora approvate, negli Stati Uniti. Avevamo presentato il brevetto anche in Italia e l’abbiamo ritirato. Poi lo abbiamo fatto per Europa e Canada. A un certo punto ho deciso di ritirare anche quelli. Ho lasciato in piedi solo le domande negli Usa. Perché? Intanto la metodica è diventata visibile, così nessuno può accusarci di tenerla nascosta. In secondo luogo, perché quella è la sede delle grandi multinazionali. Essendo classificata come "tecnica nota", nessuno comunque può più brevettarla, nè dunque sfruttarla commercialmente».

Come andrà a finire?
«Ci sono tante cose ancora in sospeso. Non so che cosa farà il giudice Guariniello, nè come sarà attuato il decreto Balduzzi, o come alla fine reagirà la politica. Sicuramente quello che mi accomuna molto a Marino Andolina è che siamo due kamikaze: se credo veramente in un’idea, vado fino in fondo. Sempre».

(modifica il 5 aprile 2013)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Ruggiero Corcella

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