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"Così Facebook e Twitter ci rendono conformisti"

Quando l'utente avverte che in rete i suoi contatti su social la pensano come lui - rivela uno studio del Pew Research Center - è predisposto a condividere il suo pensiero all'incirca il doppio rispetto a quando avverte disaccordo. Una tendenza che ha conseguenze anche fuori dall'ambito virtuale, nelle relazioni faccia a faccia. Un "effetto silenziatore" che fa già discutere

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SU FACEBOOK e Twitter vogliamo avere sempre ragione  -  o per dirla diversamente, siamo molto più reticenti a esprimere la nostra opinione quando percepiamo che la nostra cerchia di riferimento non la pensa come noi. Quello che il Pew Research Center ritrae nel suo dossier appena pubblicato, "I social media e la spirale del silenzio",  è un utente social che si conforma, in un mondo virtuale che pare mettere all'angolo il punto di vista della minoranza. Ma è davvero così? L'équipe di studiosi - Keith Hampton, Lee Rainie, Weixu Lu, Maria Dwyer, Inyoung Shin e Kristen Purcell  -  ha sondato il comportamento di 1801 americani prendendo come caso di studio le rivelazioni di Edward Snowden sulla sorveglianza di massa via mail e telefono. Una questione di rilevanza pubblica  -  così argomentano la scelta i ricercatori  -  e su cui l'America (a dirlo, sempre dati Pew) era spaccata in due come una mela: giustificare o meno il proprio governo?

Cosa dicono i numeri. Hampton e la sua squadra hanno valutato che questo fosse il caso ideale per verificare la predisposizione al confronto su un tema di pubblico interesse  -  anche se, come vedremo, la scelta è già oggetto di discussione. Queste le tendenze del campione "testato" nell'autunno 2013: l'86% vuole parlare del programma di sorveglianza, ma solo il 42% di chi usa Facebook e Twitter intende farlo postando sui social. Questi media, osservano i ricercatori, non forniscono una piattaforma alternativa per quella minoranza (il 14%) che già dall'inizio non intendeva discuterne. Inoltre, online come fuori (ad esempio nell'ambiente di lavoro), la gente è più disponibile a condividere la propria opinione se sa di trovare consenso nell'audience di riferimento. I numeri sembrano parlare chiaro: quando avverte che in rete i suoi contatti su Facebook e Twitter la pensano come lui, il campione è predisposto a condividere il suo pensiero all'incirca il doppio rispetto a quando avverte disaccordo. Non è tutto: la tendenza ha conseguenze anche fuori dall'ambito virtuale, nelle relazioni faccia a faccia.

Se i social ci "zittiscono". I sei studiosi tirano le fila: i dati suggeriscono che i social non aprono nuovi ambiti di discussione per chi altrimenti non avrebbe espresso la propria opinione. "Anzi, se si avverte che sui social il proprio pensiero non è condiviso, si è più reticenti a esprimerlo anche nei vecchi ambiti di relazione".  Insomma, nuovi strumenti, vecchia teoria: per il Pew sarebbe applicabile anche ai social la "teoria della spirale del silenzio", formulata negli anni Settanta dalla sociologa Elisabeth Noelle-Neumann per descrivere il potere conformante dei mass media.  Keith Hampton del Pew si spinge a osservazioni profonde: "Una società dove la gente non è nelle condizioni di condividere la sua opinione in modo aperto e di arricchirsi aprendosi al confronto con chi la pensa diversamente, è una società polarizzata". Ma la questione è ancora aperta, e il principale contributo della Hampton e dei suoi colleghi è senz'altro questo: sollecitare un dibattito, già stuzzicato in qualche modo dallo studio dello Pnas, che ha fatto scalpore in particolare per l'uso dei dati da parte di Facebook. Ma a loro modo,  Adam Kramer, Jamie Guillory e Jeffrey  Hancock, nel loro esperimento sul contagio emozionale su larga scala attraverso i social network, stavano parlando della stessa questione: di come i social ci condizionano e ci contagiano. E di quanto  -  come suggerirebbe il Pew  -  "riducono al silenzio" chi la pensa diversamente. Il fatto è che, come ogni studio abbastanza autorevole da suscitare un dibattito, anche quello del Pew Center può essere oggetto di discussione sia nel metodo che nel merito.

Per capire meglio. Se il cuore della questione è "l'effetto silenziatore" dei social, allora la prima frecciata viene dagli stessi dati Pew. Perché nell'ottobre 2012, uno studio su "I social media e l'impegno politico" rilevava che ben il 66% di utenti di social in America (e quindi il 39% degli americani di allora) utilizzava quel tipo di media per coinvolgersi su temi politici e civili. Uno su tre li usava proprio per esprimere esplicitamente opinioni in ambito politico e sociale. I firmatari dello studio - Lee Rainie, Aaron Smith, Kay Lehman Schlozman, Henry Brady e Sidney Verba  -  mettevano a confronto i loro numeri con ulteriori dossier Pew sulla partecipazione di gruppo e sui social, per poi concludere che "impegnarsi attraverso i social è diventata una caratteristica della vita politica e civile per una porzione significativa di americani". Anzi, che chi li usa è pure più attivo pubblicamente rispetto a chi non è entrato in quella rete. Viene dallo stesso Pew, insomma, un primo segnale che, nonostante le tendenze in evoluzione, sulla predisposizione a discutere e i social bisogna stare attenti a non trarre conclusioni estreme. Anche perché, pur dando per assodato il potere conformante e "silenziatore" dei social, il contesto sarebbe comunque molto diverso da quello dei Settanta di Noelle Neumann. Un elemento su tutti: quando si parla di pubblica opinione, di maggioranze e di minoranze, a quale audience ci si riferisce? Sostenendo che "le minoranze sono spinte al silenzio", rispetto a quale maggioranza le si sta definendo? La nota forse più interessante è proprio questa: nel caso dei social, il pubblico di riferimento è quello chiuso che formiamo attraverso la nostra individuale rete di relazione. Paradossalmente, un'opinione di nicchia rispetto a quella generale potrebbe costituire una "maggioranza silenziatrice" rispetto ai suoi membri di riferimento. Un'opinione pubblica, sì, ma parcellizzata, un giardino ma chiuso, che rievoca i timori claustrofobici del padre del web: il "walled garden", così già nel 2010 sulla rivista Scientific American non a caso Tim Berners Lee definiva Facebook. "Se si continua così  -  ammoniva   -  il web potrebbe frantumarsi in tante isole". Non solo il web, ma anche l'opinione.

La polemica sul Datagate. Intanto la ricerca Pew suscita già reazioni di metodo per la scelta del Datagate come caso di analisi. La testata che ha ospitato le rivelazioni di Snowden, il Guardian, fa notare che lo studio non dimostra, ma suggerisce, il motivo per cui le persone non si sentono a proprio agio nel discutere del caso. E mentre l'équipe ipotizza ad esempio il timore di ripercussioni sul lavoro, il Guardian solleva la spiegazione "più ovvia": la riluttanza può essere legata anzitutto alla scoperta di essere sorvegliati. "Vista la limitata estensione di informazioni rivelate da Snowden nei giorni dello studio (agosto-settembre 2013) non si ritiene che la volontà di discuterne online possa essere stata significativamente alterata da questo", dicono gli studiosi.  "Ma già  il 6 giugno il Guardian pubblicava rivelazioni su Facebook e Google", obietta il giornale. Ed è, almeno in teoria, già polemica. "Il caso preso come esempio è molto particolare, e il campione non è affatto ampio", notano a Tech Crunch, "perciò potremmo non essere di fronte a una prova sferzante degli effetti dei social. Ma certo, la materia per discuterne c'è". E su questo almeno, sarà difficile esprimere disaccordo.