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Dietro le quinte La Santa Sede teme una rottura

Il Vaticano non vuole un «caso Zapatero» anche Oltreoceano

L’immagine di Barack Obama come una sorta di «Zapatero globale» viene tuttora rifiutata, in Vaticano. È considerata forzata, quasi caricaturale. Significherebbe ammettere che alla Casa Bianca siede un avversario culturale dell’ortodossia cattolica: un esponente di quel Partito democratico statunitense guardato da anni con diffidenza dalla Roma pontificia; e assimilato ad alcune forze della sinistra europea, come i socialisti del premier spagnolo Zapatero, appunto, accusate di fare avanzare l’odiato «relativismo etico ».

Ma dopo la decisione della Casa Bianca di non limitare più i finanziamenti alle ricerche sulle cellule staminali, la divisione del lavoro fra vescovi americani e Santa Sede diventa più difficile. Finora, il tentativo è stato di affidare all’episcopato Usa il compito di criticare l’Amministrazione, mentre il Vaticano si riservava una posizione più defilata; e di distinguere fra il presidente ed i democratici. La tesi di partenza è che Obama ha vinto le elezioni soprattutto in quanto avversario di George W. Bush; ma non perché la maggioranza del Paese condivida l’agenda «liberal» (radicale nella versione europea) del suo partito. Si tratta di un’interpretazione che risponde ad un calcolo paziente: ottenere un distacco della Casa Bianca dal cuore duro ed estremista dell’elettorato; e renderla trasversale. L’operazione nasce da una sintonia oggettiva su immigrazione, crisi economica e politica estera.

Ma per il resto si sta rivelando meno facile del previsto. È vero che alcune assicurazioni sarebbero arrivate. Ad esempio, la nuova Amministrazione avrebbe garantito che il Congresso non affronterà il problema del Freedom of Choice Act, una legge che liberalizzerebbe l’aborto. E la cerchia dei consiglieri presidenziali sta esaminando almeno una decina di candidati alla carica di ambasciatore Usa presso la Santa Sede. Scelta difficile: il Vaticano ha già fatto sapere che darà il gradimento solo ad alcune condizioni. Un paio di nomi circolati informalmente sarebbero stati considerati inadatti, e dunque rimessi nel cassetto. D’altronde, anche i politici cattolici americani sono divisi su aborto e staminali. E l’episcopato non perde occasione per bacchettare chi non simostra abbastanza ubbidiente ai principi della dottrina della Chiesa. Lo conferma l’accoglienza poco meno che gelida riservata al presidente democratico della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, nella sua udienza recente da Benedetto XVI.

È solo un altro segnale della difficoltà di ridisegnare i rapporti dopo gli anni di Bush: una fase nella quale, pure, le divergenze fra Usa e Vaticano sulla guerra in Iraq sono state vistose. Ma la sintonia con l’Amministrazione repubblicana sui temi «eticamente sensibili» era quasi totale. Non a caso, nell’ultimo anno a Roma era arrivata come ambasciatrice Mary Ann Glendon. Bush l’aveva scelta non in quanto giurista di Harvard, ma perché era considerata vicinissima al Papa: al punto da essere la prima donna nominata nel 2004 presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Trovare un nuovo identikit che corrisponda a quello gradito alla Santa Sede non sarà facile. È in atto un silenzioso braccio di ferro, che può diventare imbarazzante se si dovesse prolungare fino all’estate. A luglio Obama è atteso in Italia per il vertice del G8 in Sardegna. E le diplomazie stanno studiando una «fermata tecnica» a Roma che permetta un incontro con Benedetto XVI. La nomina del nuovo ambasciatore Usa presso la Santa Sede indicherà la piega che stanno prendendo i loro rapporti. E dirà se il fantasma di Zapatero è stato davvero esorcizzato: almeno al di là dell’Atlantico.

Massimo Franco
10 marzo 2009

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