Roma

IL CASO

Non è reato dare del pazzo al capufficio 
la Cassazione assolve un avvocato
 

Secondo gli ermellini il termine è inelegante ma non diffamatorio. I giudici non
censurano neanche l'espressione "leccaculo" rivolta ai colleghi troppo compiacenti
con il titotale dello studio legale che gestiva l'attività in modo troppo burocratico 
 

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Dare del "pazzo" al capufficio non è reato: si tratta di un termine "sicuramente inelegante", che "riassume in modo rozzo il pensiero di chi lo pronuncia", ma che "di sicuro non ha valenza diffamatoria, essendo entrato nel linguaggio parlato d'uso comune come i termini 'scemo' e 'cretino'". E' uno dei passaggi chiave della sentenza (la numero 17672/10) con la quale i giudici della V sezione penale della Corte di Cassazione hanno accolto il ricorso presentato da Nicola P., un avvocato romano, e annullato senza rinvio la condanna al risarcimento dei danni emessa dalla Corte d'appello della capitale.

Quella "raccontata" dalla sentenza è una storia di ordinario lavoro, nella quale non farebbero fatica a riconoscersi generazioni di dipendenti: un ufficio (in questo caso uno studio legale) gestito in modo troppo burocratico, una sostanziale allergia alle critiche da parte di chi comanda, un manipolo di colleghi pronti a vestire i panni degli yesmen pur di compiacere il capo.

Nel dettaglio: Nicola P., 45 anni, collaboratore dello studio del collega Giuseppe B., nel commentare una nota interna con l'addetta all'ufficio contabilità, sbotta: "Basta, ho deciso, io con l'avvocato ci parlo, ci discuto, non sono come la P. (un'altra legale, ndr) che dice sempre 'sì avvocato.. certo avvocato". B. è un pazzo, vuole restare circondato da leccaculo.. bene ci resti pure". Lo sfogo ha soli due spettatori, ma l'addetta alla contabilità ne riferisce zelantemente il contenuto in una lettera al titolare dello studio e Nicola P. si ritrova querelato per diffamazione.

Assolto in primo grado, ritenuto colpevole in appello - anche se il reato è nel frattempo dichiarato prescritto - Nicola P. non ci sta e si rivolge alla Suprema Corte.
Ottenendone soddisfazione su tutta la linea. "La ricostruzione dei fatti è pacifica - scrive la Cassazione - l'avvocato P. da tempo discuteva con l'avvocato B. l'organizzazione dello studio, contestando in particolare, spesso con frasi vivaci, l'organizzazione di tipo burocratico dello studio professionale".

L'espressione "leccaculo" - emendata dagli ermellini nel più politically correct 'signorsì - era rivolta chiaramente ai colleghi, "sempre proni a qualsivoglia direttiva del capo dello studio", ma nessuno di loro si è rivolto al giudice. Mentre dando del "pazzo" al titolare, il ricorrente esprime un "concetto del tutto chiaro: colui il quale non accetta le critiche, anche le più severe, dei suoi collaboratori e si circonda di persone che, per quieto vivere, non contestano alcuna decisione, avrà scarsi strumenti per dotarsi di una efficiente organizzazione; la critica e la discussione approfondita consentirebbero, invece, di affrontare e risolvere meglio i vari problemi che si pongono nella conduzione di un'azienda, di piccole o grandi dimensioni ch essa sia".

"Si può o meno condividere l'assunto - osservano i giudici - ma non vi è dubbio che questo sia il significato dell'aspra critica. La diffamazione consisterebbe nell'avere rivolto al capo dello studio il termine 'pazzò proprio perché si era circondato di signorsì che lo avrebbero portato alla rovina.
Orbene, tale termine è sicuramente inelegante e riassume in modo rozzo il pensiero di chi la pronuncia, ma di sicuro non ha valenza diffamatoria".

In pratica, "quando tali termini vengono usati nelle discussioni, spesso accese, che si svolgono tra colleghi in ambito lavorativo e/o sindacale aventi ad oggetto temi concernenti l'organizzazione del lavoro e/o l'adozione di particolari iniziative che possano aumentare la produttività dell'ufficio e rendere più agevole e meno burocratizzata l'attività degli addetti, finiscono con l'avere un significato rafforzativo del concetto espresso ed evocativo delle gravi conseguenze che si potrebbero verificare in caso di non accettazione delle critiche e dei consigli. L'espressione 'pazzo', pertanto, ha finito per perdere, nel caso di specie, la sua valenza offensiva per divenire espressione, sintetica ed efficace, rappresentativa di una conduzione scorretta dell'ufficio, che non potrà che portare alla rovina dello stesso. E' certamente disdicevole o poco corretto che in una discussione di lavoro, che per affrontare con esiti positivi un problema dovrebbe essere pacata e serena, si usino termini che possono essere irritanti e poco rispettosi per l'interlocutore e, quindi, controproducenti, perché evidentemente la forte polemica non consente di trovare soluzioni condivise, ma si deve escludere che essi siano tali da superare la soglia del penalmente rilevante".